Gli interpreti del regime eritreo cacciati dai parenti delle vittime del 3 ottobre
Abraham Tewolde
Abraham Tewolde è un “tegadalay”, un guerrigliero che ha combattuto per l’indipendenza dell’Eritrea. Un titolo d’onore per tutta una generazione di connazionali, cresciuti fino al 1993 sotto il dominio etiopico. Dal 2013 - come Redattore Sociale ha raccontato lo scorso luglio - è in prima linea in una battaglia impari, quella contro i trafficanti che ricattano e sequestrano i giovani eritrei appena sbarcati in Sicilia, ansiosi di raggiungere conoscenti e famigliari nel nord Europa. Un impegno nato da lontano e rafforzatosi nell’ottobre 2013, all’indomani della tragedia che riportò Lampedusa al centro delle cronache internazionali. “Il giorno dopo la tragedia andai a Agrigento”, racconta oggi, “per pregare per le 368 salme, appena portate da Lampedusa, ma anche lì mi trovai nel mezzo di una battaglia, che per noi eritrei sembra non finire mai”.
Abraham Tewolde |
Cadaveri senza nome
“Gli eritrei in tutto il mondo sapevano del disastro e chiunque avesse un parente in viaggio stava cercando di contattarlo, così molti arrivarono a me, che vivo in Sicilia; mi chiamavano da Canada, Stati Uniti, Svezia, Grecia, Sudan e persino dall’Eritrea, in cerca di un pezzo di verità”. Per chi riuscì a andare a Lampedusa o ad Agrigento, la verità si presentò in tutta la sua drammatica durezza. “La polizia mi spiegò che c’erano tre categorie di corpi: quelli ancora conservati, che si potevano riconoscere anche con una fotografia, quelli deteriorati, riconoscibili solo da amici o parenti stretti, e quelli completamente sfigurati, gonfi di acqua ancora giorni dopo il naufragio, che solo un test del dna avrebbe potuto identificare”.
Il governo eritreo
Il 21 ottobre a Agrigento era arrivato il presidente del consiglio Letta, accompagnato dai ministri Alfano e Kyenge. Una commemorazione civile senza bare, dato che diversi corpi erano già stati sepolti. Nel porto siciliano erano giunti anche alcuni famigliari delle vittime, accanto a una delegazione governativa, guidata dall’ambasciatore eritreo in Italia Tekle Woldetatios, e a membri dell’opposizione. “La presenza di esponenti del governo eritreo divenne subito un problema: c’era per esempio un fotografo governativo, che iniziò a fotografare tutti gli eritrei presenti, una sorta di schedatura dei nemici del regime”. A creare tensioni furono però, soprattutto, gli interpreti.
Interpreti o informatori?
Tewolde ricorda che “il giorno dopo la cerimonia, mentre stavo per partire, vidi parecchia confusione fuori dalla questura e mi fermai”. Erano i parenti delle vittime che allontanavano gli interpreti, mandati dal regime e prontamente registrati presso la questura per assistere le famiglie nelle difficili operazioni di identificazione dei cadaveri. “Non solo quelle persone rappresentavano un regime da cui le vittime cercavano di scappare, ma avevano un atteggiamento derisorio, ridevano… per loro quei morti valevano meno di un animale”.
Un vecchio problema
- Alla fine la questura si convinse ad allontanare gli interpreti, e Tewolde si offrì per iniziare il lavoro. “Presi alcuni giorni di ferie e rimasi lì come volontario, finché non trovarono un’altra persona”. La questione però, spiega, non è finita. “Già nel 2012 padre Mussie Zerai aveva denunciato alcuni interpreti legati al regime, che lavoravano nelle Commissioni per il diritto d’asilo... invece che tradurre la vicenda dei rifugiati, mettevano paura e minacciavano, proprio durante le audizioni”. Anche a Tewolde toccò l’anno scorso: “venni a sapere di un’inteprete filo-governativa e lo segnalai in Prefettura, così l’hanno rimossa, ma bisogna essere sempre vigili”. Fra i segni di riconoscimento di chi è allineato con il regime, “ci sono i sandali di gomma da spiaggia, che noi chiamavamo ‘congo’: erano usati nella guerriglia, li avevo anche io, e ora sono diventati un simbolo di potere, tanto che quando ho visto un interprete che li indossava nel Cara di Mineo, ho subito capito da che parte stava”.
Il 3 ottobre continua
Da allora Abraham Tewolde, oltre a a visitare la stazione di Catania quasi tutti i giorni per dare informazioni agli eritrei appena sbarcati e a sottrarne diversi dalle maglie dei trafficanti, ha iniziato a essere chiamato come mediatore durante gli sbarchi. “Mi chiamano per quelli più tragici - spiega rabbuiandosi -, quelli in cui ci sono vittime”. L’ultimo lo scorso 27 agosto a Palermo: “c’erano 52 morti, 20 dei quali erano eritrei, e ho affiancato gli operatori sociali e sanitari per dare le prime informazioni ai superstiti, aiutarli a capire dove sono, a fare una telefonata”. Intanto continua a ricevere le chiamate di famigliari che vogliono far visita ai parenti morti, “ma non sanno in che cimitero sono sepolti, le tombe sono distribuite in tutta la Sicilia e alcuni sulla lapide non hanno ancora il nome ma solo un numero... quello che posso fare è dargli il contatto della prefettura e aiutarli se vengono in Sicilia”. (Giacomo Zandonini)