Governo decreta i paesi sicuri per legge. “Diritti a rischio”
Un momento delle operazioni di salvataggio di questa notte da parte della Guardia costiera
ROMA - Per risolvere il pasticcio del protocollo con l’Albania, il governo Meloni ha approvato nella serata di ieri un nuovo decreto legge in cui è stata rivista la lista dei paesi considerati sicuri. In particolare sono stati rimossi il Camerun, la Colombia e la Nigeria, così il numero totale dei paesi da 22 è sceso a 19. E comprende: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.
Ma la mossa di inserire la lista in un decreto legge potrebbe non essere sufficiente ad evitare la non convalida dei fermi dei migranti da parte del Tribunale di Roma. “Questo nuovo decreto-legge non risolve il tema della definizione di Paese sicuro” – dichiara Valeria Taurino, Direttrice di Sos Mediterranèe Italia. ” Proprio il nodo centrale dell’impianto, cioè la creazione di discriminazioni tra naufraghi sulla base della provenienza (ma anche del sesso e dell’età), è in conflitto con quanto disposto dal diritto marittimo internazionale che invece impone un obbligo di soccorso, assistenza e tutela “indipendentemente dalla nazionalità o dalle circostanze delle persone in pericolo in mare”.
“Al di là del contenuto del Decreto Legge cosiddetto “paesi sicuri”, che non ci trova d'accordo, quello che registriamo ancora una volta è la modalità di gestire il tema dell'immigrazione da parte dei membri del Governo: sempre e solo come se ci fosse un avversario da battere - aggiunge Valentina Brinis, advocacy officer di Open Arms. E ciò accade senza che le persone di cui ci si sta occupando siano considerate come tali. Solo corpi da bloccare e da punire in nome del rispetto sovrano delle frontiere. Gestire i flussi migratori in maniera scientifica vuol dire trovare un giusto equilibrio tra due aspetti fondamentali: la sicurezza e il rispetto dei diritti umani. Qui, invece, sembra che la bilancia penda solo da una parte. Un modo che noi suggeriamo da anni per rimettere in asse il tutto è quello di investire in canali umanitari sicuri, nella politica dei visti e nella costruzione (dove possibile) di condizioni migliori nei paesi di origine. È faticoso e forse non porta consensi nell'immediato, ma è l'unica via possibile”.