I "caregiver" che lavorano guadagnano di meno. E sono discriminati
ROMA - Conciliare lavoro e famiglia non è facile, ma diventa addirittura “discriminante” quando in famiglia c'è una persona con disabilità di cui prendersi cura: penalizzazioni nel percorso professionale e nella retribuzione salariale sono le principali discriminazioni a cui va incontro il lavoratore “caregiver”, soprattutto se è donna. E' quanto emerge dalla ricerca “Discriminazioni e lavoro di cura: il caso aiutanti familiari”, realizzata da Arcs, Ligues des Droits de l’Homme e altri parner internazionali, nell'ambito del progetto “Agir contre les écarts de salaire Femmes/Hommes (GPG) : prendre en compte le cas des aidantes informelles”, finanziato dall’Unione Europea. La ricerca viene presentata oggi presso la Casa internazionale delle donne. La ricerca sul campo, realizzata con metodologia qualitativa, raccoglie testimonianze e storie di 5 donne e 4 uomini, impegnati sul doppio fronte del lavoro fuori casa e della cura di un familiare. Obiettivo generale dell'iniziativa, spiegano i promotori, è “rendere dignità e giustizia a quei soggetti che riteniamo imprescindibili figure per un’equa organizzazione del welfare”. Questo, attraverso le parole e le testimonianze di chi vive sulla propria pelle questa condizione. Ed ecco, in sintesi, i nodi che emergono.
Il soggetto: lavoratori con la 104. Le nove persone intervistate sono tutte beneficiarie della legge 104/92. E la prima puntualizzazione è che “sono ancora molte le lavoratrici e i lavoratori esclusi dal riconoscimento di queste agevolazioni anche nel caso in cui siano familiari di persone con necessità di assistenza”. Resta escluso dal beneficio della legge, infatti, “tutto il mondo del lavoro precario e autonomo così come alle persone conviventi al di fuori del matrimonio”. Gli intervistati hanno tra i 37 e i 65 anni, sono tutti lavoratori dipendenti, tre di loro nel settore privato, due nel privato sociale, due nel pubblico e due in enti pubblici con contratti di lavoro di tipo privatistico.
Più discriminazioni nel settore privato. Qui si incontrano infatti le maggiori difficoltà, se no vere e proprie discriminazioni, in termini di sviluppo di carriera o altri aspetti della vita lavorativa. Chi invece è occupato nel settore pubblico utilizza i permessi o i periodi di congedo previsti dalla normativa con più “serenità”.
Decurtazione del salario accessorio, soprattutto per le donne. E' questa la prima penalizzazione che subisce, di solito, chi fruisce della legge 104: se da un lato non esistono differenziali salariali in senso stretto, dall'altro questi lavoratori di solito non percepiscono generalmente forme di salario accessorio, come premi di produzione, bonus di varia natura, ecc., che nella maggior parte dei casi dipendono non tanto dal raggiungimento degli obbiettivi, quanto dalla presenza nella sede di lavoro. In altre parole guadagna di più chi trascorre (o meglio, può trascorrere) più tempo al lavoro. Precisano i ricercatori che “il ema dei differenziali retributivi è stato segnalato soprattutto dalle donne”.
Mancata partecipazione a corsi di formazione e aggiornamento. E' questa un'altra grave penalizzazione subita da chi ha un lavoro e un familiare disabile: la limitazione è dovuta sia alla minor presenza sul posto di lavoro, sia al fatto che questi lavoratori sono esclusi a priori in quanto fruitori della 104, sia infine perché vi rinunciano le stesse persone interessate, per stanchezza o 'autocensura'.
Non effettuazione degli straordinari e riduzione Tfr. Le necessità di assistenza non permettono, anche volendo, di trattenersi di più a lavoro. E questo comporta anche la riduzione del trattamento di fine rapporto (TFR), calcolato su quanto effettivamente percepito nel corso della vita lavorativa. Si ipotizzano anche conseguenze sulla pensione in ragione del meccanismo di calcolo su cui incidono negativamente i cosiddetti “contributi figurativi”. Una ulteriore penalizzazione avviene nel caso di scelta del part-time per le esigenze di cura. (cl)