I social bond all'italiana che finanziano il non profit
MILANO – Sono tre gli istituti che in Italia hanno introdotto gli strumenti finanziari chiamandoli social bond: il gruppo Ubi Banca, Banca Etica e Banca Alpi marittime. Cosa hanno di sociale questi titoli? Finanziano attività non profit. Ubi Banca è capofila nel settore dell'investimento sociale, con 28 obbligazioni già emesse (vedi lancio successivo). Gli ultimi due bond di Banca Etica sono dell'ottobre 2012 ed hanno un valore totale di 18 milioni di euro. La Banca Alpi Marittime ha emesso obbligazioni sociali per 50 milioni di euro, per sostenere due case di riposo, un progetto per aiutare persone con autismo e tre progetti per i malati di Sla.
Un mercato che ancora non c'è. Nonostante attorno alle obbligazioni "etiche" ci sia una certa effervescenza, per gli esperti in Italia i veri social bond ancora non esistono. Non c'è nulla di paragonabile alle obbligazioni inglesi, antesignane nella storia dei social bond. "Da noi non c'è una pubblica amministrazione in grado di segnalare quali sono i progetti di alto valore sociale, elemento fondamentale nei social impact bond inglesi. Ma è solo questione di tempo, ci arriveremo", spiega Roberto Randazzo, professore di Non profit law all'Università Bocconi di Milano. E allora quelli che oggi si chiamano "social bond" cosa sono? "Sono obbligazioni tradizionali, che servono a trovare finanziamenti per il non profit in un momento in cui gli enti ne hanno particolarmente bisogno e i soldi mancano a tutti". Sono "sociali" perché le banche attribuiscono una quota della rendita ad associazioni ed enti del non profit, ma in sostanza il meccanismo è lo stesso dei bond tradizionali. Quindi l'aggiunta dell'attributo serve a vendere meglio il prodotto: "C'è una grande sensibilità del mercato – continua Randazzo -. Le prime obbligazioni social di Ubi Banca sono andate esaurite in 36 ore quando invece di norma è difficile piazzare bond sul mercato".
BOXIl social bond britannico. Prigione di Peterborough, Inghilterra, 2010: la nascita dei social bond. Il governo vuole trovare del denaro per finanziare dei progetti di reinserimento lavorativo per i detenuti che hanno pene inferiori ai 24 mesi: uno studio dimostra che il tasso di recidiva tra coloro che partecipano al progetto è sette volte inferiore alla media. Il che si traduce per i cittadini in più sicurezza e per lo Stato in minori spese per il sistema carcerario: un investimento conveniente. Invece che affidarsi alle charities, gli enti benefici che fanno filantropia, a Londra i soldi si trovano nel mercato. "Lo si fa con un meccanismo mediato, cioè passando attraverso un ente, il Social finance, che emette le obbligazioni per finanziare il non profit", spiega Randazzo. È quindi il settore pubblico la locomotiva dell'operazione: il ministero della Giustizia incarica il Social finance di cercare sottoscrittori per pagare l'ente non profit che si occupa del progetto sociale. A pagare la rendita dei sottoscrittori è il Social finance, con quei soldi che lo Stato ha risparmiato dalla diminuzione del tasso di criminalità e recidiva. Il 19 marzo 2010 il Social finance raccoglie i suoi primi 5 milioni di sterline: il progetto di Peterborough si farà. "Nel caso britannico – spiega Randazzo – il governo ha investito denaro pubblico per far nascere un ente che ha creato un mercato. Se seguissimo questo esempio potremmo avere effetti molto positivi anche da noi".
Quando non c'è lo Stato. Trovato il modello, ora si tratta solo di applicarlo: "Si può replicare in tutte le aree di spesa pubblica dove può intervenire il terzo settore. Per il cittadino deve essere una spesa diversa dalla donazione: un investimento", continua il professore della Bocconi. E in Italia ci si può sbizzarrire: gli enti non profit si occupano di temi che vanno dalla cultura all'accoglienza dei migranti. Se lo Stato però non mette nulla sul piatto, costringe le banche attente al tema come Ubi a muoversi. Su unfronte diverso però da quello britannico: "Ubi ha realizzato obbligazioni ordinarie in cui la banca rinuncia a una quota di profitto, che viene destinata al non profit - spiega Randazzo -. Quest'operazione ha creato un nuovo mercato di piccoli sottoscrittori sensibili al sociale". Prima o poi i tempi saranno maturi anche per un coinvolgimento diretto dello Stato, è convinto il docente della Bocconi. I tagli ai fondi per il welfare hanno lasciato gli enti non profit soli. Non ci sono altri in grado di erogare servizi alla persona. "Prima – racconta Randazzo – nel mondo della finanza era considerato da perdenti occuparsi di non profit. Ora però ci si è resi conto che rispetto ad altri i non profit hanno costruito un business cercando di tenere i costi molto bassi e non ridistribuire gli utili, il che è l'unico modo per garantirsi la sopravvivenza in un momento così". Strani effetti collaterali della crisi: i tempi di vacche magre hanno fatto riscoprire il valore, anche economico, di chi produce "sociale" e spende poco. Il grande tema, però, a cui gli esperti non sanno dare una risposta precisa è valutare in termini sociali se un investimento è stato redditizio oppure no.