Il dramma nelle Rsa diventate ghetto
MILANO – È un libro bianco che racconta il dolore e l'angoscia degli anziani ospiti nelle case di riposo e dei loro famigliari. “Al telefono, mi ha ripetuto che ha paura di non vederci più, non sono riuscita a consolarlo. Non è stato attivato per gli ospiti nessun servizio di supporto psicologico, in carcere almeno hanno il prete per fare due chiacchiere. Mio marito non riconosce più i figli, è dimagrito moltissimo, sbatte i denti e sbava”. Questa è una delle tante testimonianze raccolte dall'associazione Felicita, alla quale aderiscono i parenti di ricoverati in 69 strutture in Italia. Le hanno raccolte nel rapporto “Anziani senza famiglia. Libro bianco sulla normalità negata nelle Rsa”.
“Mentre la vita collettiva è tornata a una progressiva normalizzazione -si legge nel Libro bianco-, quella delle persone che per mancanza di autonomia sono costrette alla permanenza in strutture protette, insieme con quella dei loro familiari, da oltre sei mesi continua a restare sospesa in un mondo a parte. In pratica, un lungo lockdown che ha creato più danni del contagio stesso. Oltre ai danni dovuti alla mancata protezione, all’inosservanza delle regole di sicurezza, all’esclusione dalle cure ospedaliere, gli anziani hanno, così, subito il danno di una prolungata esclusione dalla vita e dal possibile ritorno alla normalità”.
In assenza di indicazioni chiare e stringenti da parte delle Regioni, le direzioni delle Rsa si sono orientate verso una chiusura di fatto di ogni contatto con l'esterno. “Visite limitate a 20 minuti ogni 10/15 giorni -racconta il figlio di un ricoverato-. Comunicazioni inesistenti. Velate minacce ad ogni minima richiesta. Mio padre trascorre intere giornate in una sala della struttura senza che ci sia una minima attività di animazione o un qualsivoglia coinvolgimento. È evidente il regresso psicocognitivo da 4 mesi a questa parte”.
“Nel determinare la qualità del servizio di una Rsa -ricorda l'associazione Felicita-, il fattore umano rappresenta più del 95 per cento ma i criteri di selezione, di retribuzione, di attenzione verso il personale, specialmente quello delle qualifiche inferiori, sono drammaticamente bassi. Una bassa qualità di vita del personale di assistenza conduce, infatti, a una bassa qualità di vita del ricoverato”. La situazione all'interno delle Rsa è sempre più tesa. “Le numerose inchieste della Procura hanno spinto le RSA a trincerarsi dietro un muro difensivo di divieti e restrizioni, in primis quelli nei confronti dei familiari, percepiti come “nemici” o come fonte di grane, tanto da provocare in alcuni casi lettere di chiusura unilaterale del contratto per ‘rottura del patto fiduciario’, con la comunicazione di dimissioni degli ospiti a quei parenti più pressanti nel richiedere informazioni e controlli o nel far valere diritti”.
Di fatto, e salvo eccezioni, gli anziani sono ancora isolati, senza contatti significativi con i famigliari. “I minuti sono contati -denuncia Felicita-: un quarto d’ora, quando va di lusso mezz’ora o un’ora, comunque non più di una volta a settimana. Le strutture più fortunate, quelle dotate di giardini o spazi all’aperto, finché il tempo lo ha consentito, hanno concesso qualche libertà in più, ma le altre no. E così ci sono anziani che non escono dalle proprie stanze da mesi e mesi”.
“Ci sono casi ormai gravi con aumento di sintomi psichiatrici, depressione, rifiuto del cibo. Le persone si lasciano andare senza che le famiglie riescano a fare qualcosa. Il grido di allarme arriva dai familiari ma anche dagli operatori delle strutture. Occorre trovare un equilibrio tra l’esigenza di sicurezza e l’esigenza di assistenza e di vicinanza che hanno i residenti in strutture per anziani e per persone con disabilità. La qualità della vita non può esistere in un ghetto, e la ghettizzazione delle Rsa è la prima causa di malessere degli ospiti”.