Il fardello di Kofi fra maledizioni locali e intercontinentali
- Certe volte la vita è davvero beffarda. Si diverte a creare circostanze paradossali, nelle quali rimani incastrato e sembra che non ci sia nulla da fare. E allora finisce che prendi di mira il primo vetro che hai a portata. E lo butti giù a testate. Prendi ad esempio Kofi, finito in Italia da qualche mese, accolto nelle strutture per richiedenti asilo: prima in un centro di medie dimensioni, da qualche mese in un appartamento per l’accoglienza diffusa insieme ad altri tre coetanei. Il percorso è comune a quello di decine di migliaia di giovani africani che in questi anni sono approdati qui dai Paesi del nord e del centro Africa. I motivi del viaggio sono i più diversi, la molla che lo fa scattare varia da persona a persona, ma le tappe sono comuni: il disagio, la speranza, il rischio del viaggio e della traversata; la lunga attesa che la tua domanda di protezione internazionale faccia il suo percorso – lento e accidentato - lungo tutto il sentiero burocratico. Un iter che, al di là del vocabolo latino, assomiglia davvero tanto a una strada africana nella stagione delle piogge: fango, pozzanghere, profondi solchi di pneumatici. Lentezza.
Dopo parecchi mesi di vita sospesa e sotto traccia, Kofi ha dato un segnale di sé, di quelli che non puoi ignorare: uno sclero che ha terrorizzato i suoi compagni, una crisi “psicotica” che ha distrutto mezza casa e lo ha poi lasciato mezzo nudo e ferito in mezzo al piazzale. Attorno a lui, naturalmente, si sono mobilitati gli educatori e i volontari che seguono l’appartamento e i suoi inquilini: l’intervento d’urgenza, il dubbio della necessità di un trattamento sanitario obbligatorio, i carabinieri, la visita in psichiatria. Un’emergenza che è rientrata solo in tarda serata, quando si è anche riusciti a ricostruire la causa scatenante di tanta violenza autolesionista: una telefonata proveniente dalla terra natale, attraverso la quale un lontano parente ha voluto lanciare una maledizione su Kofi. E lui, poco più che ventenne, si è sentito morire; anzi, pensava realmente di morire nel giro di poche ore. E ha tirato giù il mondo.
Il giorno dopo ho avuto modo di parlare con Arianna, la coordinatrice dell’accoglienza diffusa. Mi ha spiegato che spesso i ragazzi africani, provenienti da regioni periferiche e poverissime dei loro Paesi, sono oggetto di cocenti invidie da parte di connazionali e parenti che non hanno avuto la “fortuna” di poter partire per l’occidente. Questa invidia sociale, questa acrimonia, si trasforma nelle forme arcaiche e primitive della maledizione a distanza, del malocchio intercontinentale via cellulare. Mi ha colpito molto la posizione scomoda di Kofi: da un lato oggetto dell’invidia dei parenti rimasti in Africa e dall’altro bersaglio di quell’invidia sociale – così diversa e così uguale - pompata ad arte in Italia dagli imprenditori della paura e del rancore. Quante volte, infatti, viene ancora oggi fatta correre la leggenda metropolitana dei profughi ospitati in alberghi a cinque stelle, serviti, riveriti e persino pagati per rimanere a oziare. Gli zii d’Africa e l’avvelenato commentatore di facebook, tutti impegnati a lanciare maledizioni, tutti ossessionati da una realtà che esiste solo nei loro immaginari distorti Invece esiste solo Kofi, che aspetta – nella precarietà più totale - di capire che cosa sarà di lui. Un giovane come tanti, probabilmente un po’ più fragile della media; incastrato in una circostanza paradossale.
VAI AL BLOG