4 marzo 2017 ore: 10:00
Immigrazione

Il fardello di Kofi fra maledizioni locali e intercontinentali

Un giovane africano accolto nelle strutture per richiedenti asilo improvvisamente "sclera", terrorizza i compagni, distrugge mezza casa e si ferisce da solo. Lo fermano, la visita in psichiatria, il dubbio sulla necessità di un trattamento sanitario obbligatorio. Poi si scopre che era convinto di morire. La causa? Una maledizione via cellulare
Due rifugiati in cucina, accoglienza in casa . grande

- Certe volte la vita è davvero beffarda. Si diverte a creare circostanze paradossali, nelle quali rimani incastrato e sembra che non ci sia nulla da fare. E allora finisce che prendi di mira il primo vetro che hai a portata. E lo butti giù a testate.   Prendi ad esempio Kofi, finito in Italia da qualche mese, accolto nelle strutture per richiedenti asilo: prima in un centro di medie dimensioni, da qualche mese in un appartamento per l’accoglienza diffusa insieme ad altri tre coetanei. Il percorso è comune a quello di decine di migliaia di giovani africani che in questi anni sono approdati qui dai Paesi del nord e del centro Africa. I motivi del viaggio sono i più diversi, la molla che lo fa scattare varia da persona a persona, ma le tappe sono comuni: il disagio, la speranza, il rischio del viaggio e della traversata; la lunga attesa che la tua domanda di protezione internazionale faccia il suo percorso – lento e accidentato - lungo tutto il sentiero burocratico. Un iter che, al di là del vocabolo latino, assomiglia davvero tanto a una strada africana nella stagione delle piogge: fango, pozzanghere, profondi solchi di pneumatici. Lentezza.

Dopo parecchi mesi di vita sospesa e sotto traccia, Kofi ha dato un segnale di sé, di quelli che non puoi ignorare: uno sclero che ha terrorizzato i suoi compagni, una crisi “psicotica” che ha distrutto mezza casa e lo ha poi lasciato mezzo nudo e ferito in mezzo al piazzale. Attorno a lui, naturalmente, si sono mobilitati gli educatori e i volontari che seguono l’appartamento e i suoi inquilini: l’intervento d’urgenza, il dubbio della necessità di un trattamento sanitario obbligatorio, i carabinieri, la visita in psichiatria. Un’emergenza che è rientrata solo in tarda serata, quando si è anche riusciti a ricostruire la causa scatenante di tanta violenza autolesionista: una telefonata proveniente dalla terra natale, attraverso la quale un lontano parente ha voluto lanciare una maledizione su Kofi. E lui, poco più che ventenne, si è sentito morire; anzi, pensava realmente di morire nel giro di poche ore. E ha tirato giù il mondo.

Il giorno dopo ho avuto modo di parlare con Arianna, la coordinatrice dell’accoglienza diffusa. Mi ha spiegato che spesso i ragazzi africani, provenienti da regioni periferiche e poverissime dei loro Paesi, sono oggetto di cocenti invidie da parte di connazionali e parenti che non hanno avuto la “fortuna” di poter partire per l’occidente. Questa invidia sociale, questa acrimonia, si trasforma nelle forme arcaiche e primitive della maledizione a distanza, del malocchio intercontinentale via cellulare. Mi ha colpito molto la posizione scomoda di Kofi: da un lato oggetto dell’invidia dei parenti rimasti in Africa e dall’altro bersaglio di quell’invidia sociale – così diversa e così uguale - pompata ad arte in Italia dagli imprenditori della paura e del rancore. Quante volte, infatti, viene ancora oggi fatta correre la leggenda metropolitana dei profughi ospitati in alberghi a cinque stelle, serviti, riveriti e persino pagati per rimanere a oziare. Gli zii d’Africa e l’avvelenato commentatore di facebook, tutti impegnati a lanciare maledizioni, tutti ossessionati da una realtà che esiste solo nei loro immaginari distorti Invece esiste solo Kofi, che aspetta – nella precarietà più totale - di capire che cosa sarà di lui. Un giovane come tanti, probabilmente un po’ più fragile della media; incastrato in una circostanza paradossale.

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