Il formicaio ben organizzato che distribuisce cibo alla famiglie indigenti
È tutta una corsa contro il tempo. Chiamano dal centro commerciale e immediatamente vi date da fare col telefono per trovare qualcuno in più che vi dia una mano; in due, infatti, non ce la fareste a portare via tutta quella roba. Perché dovete farvi vivi nel giro di un paio d’ore, se no si arrangiano in qualche altro modo. Se un paio di volontari sono liberi, dovete poi organizzare i prodotti: verificare che la bolla sia a posto, fare lo scarico della merce accertando il numero di confezioni e la grammatura, valutare i tempi strettissimi – a volte una manciata di giorni - che vi separano dalla data di scadenza impressa sulle confezioni. E se si tratta del cosiddetto “fresco”, quello non confezionato, non si può perdere neanche un’ora: portare le ceste nel centro parrocchiale o nel locale che vi ha dato il Comune, separare la merce che sta deperendo da quella distribuibile, avvertire le famiglie di far presto: stasera al massimo, dalle cinque alle sette, se si vuole arrivare con qualcosa in tavola. Ma se per caso l’insalata è una montagna, bisogna far di necessità virtù e chiamare anche gli altri centri vicini, chiedere loro di affrettarsi per venire a ritirare a loro volta il cibo per le loro famiglie. Altre corse, altri passaggi di mano, altre chiamate frettolose per fare in modo che il cibo possa andare a segno, raggiungendo anche questa volta le famiglie che in quartiere fanno più fatica.
In questi tempi di crisi le iniziative di distribuzione del cibo alle famiglie indigenti si stanno moltiplicando. Ne ho la riprova questa sera, circondato dai volontari Caritas delle cittadine del nord ovest milanese; tutti hanno la loro attività e la descrivono con passione: i rapporti e le convenzioni con la grande distribuzione, le decine di volontari che si sono resi disponibili, la rete tra i vari centri di donazione, i numeri importanti delle famiglie che ciascuno segue: povera gente che non si fa problema a passare in canonica per portare a casa una borsa della spesa come dio comanda.
Stasera vengono illustrate, in sintesi, le iniziative di ciascun gruppo: chi distribuisce solo cibo confezionato, chi si è buttato sul “fresco”, chi si è specializzato nella distribuzione del pane; e poi i piccoli investimenti per far funzionare il tutto: macchine e van, freezer e celle frigorifere, le borse lavoro per retribuire le persone - anch’esse scelte tra i vulnerabili - che aiutano i volontari in questo continuo e frenetico andirivieni. L’immagine che mi si para davanti è quella di un grande formicaio, sempre in attività, ma nascosto alla vista dei più; ogni tanto, se abbassi lo sguardo, puoi scorgere la singola formica con la sua enorme briciola sul dorso, oppure - se sei più fortunato - qualche fila indiana indaffarata nei due sensi di marcia.
Questo andare di fretta, questo correre ha un sapore molto contemporaneo, ma al contempo l’attività della distribuzione diretta del cibo ai “poveri” ha un retrogusto davvero antico. Chi l’avrebbe detto, solo un paio di decenni fa, che questo tipo di iniziative avrebbe ripreso fiato in una maniera così importante? Ci sono stati tempi non lontani in cui poteva legittimamente apparire una pratica ormai sorpassata, buona per le dame sfaccendate della borghesia illuminata: paternalismo, concessione, elemosina.
E invece oggi questo stesso darsi da fare acquista un segno completamente diverso: nel loro piccolo, senza fare discorsi o inseguire utopie rivoluzionarie, questo formicaio depone concretamente i suoi bei punti di domanda accanto al nostro stile di vita, al cibo che gettiamo ogni sera dal retro dei negozi e soprattutto nei cassonetti della grande distribuzione.
Diventa un segno di contraddizione, che attiva parole come riutilizzo, riduzione dello spreco, rispetto del pianeta, nuova economia dello scambio e della solidarietà.
Parole al passo coi tempi.