12 dicembre 2017 ore: 12:23
Immigrazione

Imprese immigrate, in Italia quasi un quarto sono gestite da donne

La componente più attiva è quella cinese, seguono romene e marocchine. I settori maggiormente rappresentati sono il tessile e il commercio. A livello nazionale ed europeo molti i programmi di promozione, ma non sono specifici per le donne, si concentrano su interventi singoli e sulle start up
Migranti, imprenditoria straniera, negozio di stoffe - SITO NUOVO

Le imprese gestite da donne di origine straniera in Italia sono pari a quasi un quarto del totale delle imprese a titolarità straniera (poco più del 23%). Rispetto alle imprese a guida femminile la loro incidenza è però pari al 9,3% con picchi in alcuni settori: nel tessile-abbigliamento arrivano al 27,2% (quasi 10 mila imprese) e il commercio in cui le imprese guidate da donne di origine straniera sono 1 su 3 (oltre 40 mila). Seguono ristorazione e servizi alberghieri con 15 mila casi. Sono alcuni dei dati contenuti nel Rapporto Idos 2017 su immigrazione e imprenditoria presentati oggi a Roma da cui risulta che la componente più attiva è quella cinese, con 21.526 immigrate titolari di ditte individuali. Molto significativa è la loro presenza nel tessile-abbigliamento con oltre 7 mila titolari, anche se in assoluto il settore più importante è quello del commercio (8.600). Al secondo posto c’è la componente rumena (9.717) e al terzo il gruppo marocchino (7.411 titolari, di cui oltre 5 mila gstiscono attività commerciali), “una smentita della passività e dipendenza delle donne originarie di Paese a prevalenza musulmana”. Un altro dato interessante è l’incidenza in alcuni settori di imprenditrici provenienti da Paesi sviluppati, come nel caso dell’agricoltura in cui spiccano titolari provenienti da Germania e Svizzera. 

Diferenze territoriali. Le imprese guidate da donne di origine straniera si concentrano nelle regioni centro-settentrionali: erano oltre 90 mila attività nel 2014 e sono 97 mila nel 2016, ovvero 3 su 4. In testa alla classifica delle regioni c’è la Lombardia (20.182 nel 2014 e 22.972 nel 2016 ovvero 1 su 6), segue il Lazio (quasi 15 mila imprese femminile immigrate nel 2014 e oltre 16 mila due anni dopo) e al terzo posto c’è la Toscana (quasi 13 mila nel 2014 e oltre 14 mila nel 2016), che precede Veneto ed Emilia-Romagna. Al Sud vanno segnalate la Campania con 8.500 attività guidate da donne straniere nel 2014 e 9.700 nel 2016 e la Sicilia con oltre 7 mila, “fanno pensare che anche in territori difficili sotto vari aspetti le donne immigrate mostrano capacità di iniziativa”. La Toscana è la regione in cui è più elevata l’incidenza delle donne immigrate sul lavoro in proprio femminile: 13,7%. Prato è la città in cui il fenomeno raggiunge i valori più alti: circa 3 mila imprese nel 2014, pari al 38,1% dell’imprenditoria femminile complessiva, specializzata nel tessile-abbigliamento. Firenze è al secondo posto con circa 4 mila imprese, pari al 18% dell’imprenditoria femminile sul territorio. Trieste e Milano sono al terzo e quarto posto (intorno al 16%), mentre Teramo e Rimini sono nelle posizioni immediatamente successive. 

Le caratteristiche dell’imprenditoria femminile migrante. Lo sviluppo dell’imprenditoria femminile migrante è legato a diversi fattori, in primis al sistema di welfare del Paese ospitante. “Secondo alcuni studi la conciliazione vita-lavoro è la principale motivazione per la quale le donne diventano imprenditrici, ovvero per guadagnare flessibilità – si legge nel Report – Quando più lo Stato sostiene questo bilanciamento tanto più le donne sono motivate dal criterio dell’opportunità. Inoltre, nei Paesi in cui esiste un elevato sostegno all’imprenditorialità, femminile e migrante, esiste un impegno concreto e stabile per la crescita sociale ed economica del Paese”. Un altro fattore è la motivazione personale, “gli uomini diventano imprenditori per migliorare le proprie condizioni di lavoro, le donne per ottenere un equilibrio vita-lavoro e/o opportunità di lavoro migliori. I motivi principali di uscita sono legati alle motivazioni personali di conciliazione e/o alla perdita dell’impatto sociale generato dall’attività di impresa. Secondo gli studi dell’Ocse, le donne diventano imprenditrici per necessità perché mancano opportunità nell’occupazione dipendente, lo fanno per opportunità quando hanno facile ed equo accesso al mercato del lavoro. In quest’ultimo caso, vi è un’associazione positiva con un grado di istruzione elevato”. Il terzo fattore è il grado di istruzione, “un basso livello di istruzione porta a considerare la scelta imprenditoriale per motivi di necessità, all’opposto per opportunità. In Europa le imprenditrici hanno un livello di istruzione superiore ai loro omologhi maschi”. Infine, c’è l’ecosistema del Paese di origine. “La cultura e i valori del Paese di origine caratterizzano l’etnia e quindi la propensione del singolo all’avvio di un’impresa”. 

La promozione. Sia a livello nazionale che europeo sono molti i programmi di promozione dell’imprenditorialità. “Negli ultimi decenni un numero crescente di questi si concentra sull’imprenditoria migrante e femminile e alcuni di essi offrono non sono incentivi finanziari ma anche servizi di supporto alle imprese, networking e mentoring – si legge nel Report – Gli interventi però mirati specificamente all’imprenditoria femminile migrante sono principalmente legati a progettualità isolate”. Sono 130 i programmi/politiche analizzati con caratteristiche e limiti comuni: circa la metà degli interventi sono generici e non specifici rispetto all’imprenditoria femminile migrante, la maggior parte dei programmi si concentrano quasi esclusivamente su interventi singoli, mentre le sfide richiedono uno scenario più olistico, la maggior parte dei servizi forniti si focalizza sulla fase di start up, non considerando il tasso di uscita più elevato per l’imprenditoria femminile rispetto alla controparte maschile. “L’analisi non ha fatto emergere l’esistenza nell’ambito degli interventi promossi di criteri di differenziazione di risorse e servizi rispetto ai bisogni/esigenze specifici delle donne e relative delle dimensioni culturali”. (lp)

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