26 febbraio 2016 ore: 13:24
Disabilità

In migliaia come Chiara. Cure e assistenza difficili per gli stati vegetativi

Sono oltre 10 mila nel nostro paese le persone che vivono in stato vegetativo o di minima coscienza: condizioni fra loro diverse ed entrambe ben distinte dal coma. E se negli ultimi anni il lessico ha fatto passi avanti, la presa in carico va ancora migliorata
Stati vegetativi. Flebo in primo piano

ROMA – Come lei, ci sono migliaia di persone. Gente che dopo gravi incidenti, infarti o ictus ha passato una parte (o tutto il resto) della loro vita in stato vegetativo o in stato di minima coscienza. Come Chiara Insidioso, la donna che nel febbraio 2014 fu brutalmente aggredita a Roma dal fidanzato (poi condannato a 20 anni in primo grado e a 16 anni in appello). Oggi, dopo due anni (10 mesi dei quali passati in coma), Chiara è in stato di minima coscienza, ospitata alla Fondazione Santa Lucia della capitale. Fra un mese sarà trasferita a Casa Iride, struttura che accoglie persone con simili patologie, anche se la famiglia chiede a gran voce da tempo l’attivazione di un’assistenza domiciliare h24 (e una soluzione forse potrebbe esserci).

- Come Chiara, nel nostro paese, si stima ci siano circa 10 mila persone in stato di minima coscienza, cui vanno sicuramente aggiunte le 2.500-3.000 che vivono invece in stato vegetativo. Due situazioni che hanno dei punti in comune ma che sono diverse fra loro. Lo stato vegetativo è una condizione in cui non appare che la persona abbia coscienza di sé e dell’ambiente, che comprenda o comunichi e che risponda a stimoli. Ciò nonostante la persona ha gli occhi aperti ed è vigile e ha una buona conservazione del ritmo sonno/veglia. Lo stato di minima coscienza invece è caratterizzato, ferma restando la grave compromissione, dalla presenza di comportamenti associati alle attività di coscienza. In pratica può esserci una risposta (verbale o posturale) a comandi verbali semplici e comportamenti volontari in risposta a stimoli ambientali. Di fatto lo stato di minima coscienza può rappresentare sia una tappa di passaggio dal coma alla ripresa clinica, sia una condizione di parziale uscita dallo stato vegetativo. A lungo la situazione anche clinica delle persone in stato vegetativo o in minima coscienza è stata circondata da un alone di mistero, anche a causa delle notevoli difficoltà a reperire dati, a sondare i casi assistiti a domicilio e quindi a definire un quadro lineare. Qualcosa si è comunque mosso negli ultimi anni, sia a livello nazionale sia a livello internazionale.

Nel nostro paese ciò è successo anzitutto dal punto di vista lessicale, con il lavoro svolto da un apposito gruppo al Ministero della Salute che sette anni fa – e le conclusioni valgono tutt’oggi – ha chiarito alcune differenze terminologiche molto diffuse. Le persone in stato vegetativo (e a maggior ragione quelle in stato di minima coscienza) non sono dei malati terminali e non sono “tenuti in vita” da nessuna macchina (non c’è nessuna spina alla quale sono attaccati). Non sono in coma (che è una condizione clinica ben distinta) e ovviamente non sono persone a cui è stata diagnosticata la morte cerebrale (infatti sono persone vive, non morte). E’ un errore parlare poi di stato vegetativo “permanente” o “irreversibile”, giacché non può esserci alcuna certezza totale sull’inesistenza di possibilità di recupero (e infatti esistono alcuni casi documentati, benché molto rari, di recupero parziale anche a distanza di lungo tempo). 

Quale che sia la loro precisa condizione clinica, è comunque indubbio che queste persone abbiano bisogno di percorsi terapeutici e di cura dedicati, con luoghi appositi nella fase acuta, post-acuta e cronica. In Italia le Linee di indirizzo per l’assistenza a questi pazienti sono state approvate nel maggio 2011 dalla Conferenza Stato-Regioni ma nella prassi i pazienti seguono percorsi  di cura molto diversi da regione a regione. Una fotografia, questa, scattata recentemente dal progetto nazionale CCM INCARICO (coordinato dall’Istituto Besta di Milano) che ha realizzato una vera e propria mappa di 2542 strutture dedicate a questi pazienti attive in 11 regioni italiane. Molto disomogenea la situazione anche dal punto di vista normativo: se le linee guida sono nazionali, nella pratica delle normative regionali sono state individuate 106 norme differenti. Ci sono regioni in cui sono numerosi i passaggi nel percorso di cura (Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Umbria, Veneto) e altre che concentrano i pazienti in poche strutture (Calabria, Campania, Sicilia); ci sono regioni dove la durata media del ricovero nella fase acuta è molto basso (in Liguria 18 giorni) e regioni dove è sensibilmente maggiore (in Piemonte 102 giorni); ci sono regioni che hanno grandi flussi in entrata di pazienti provenienti da altre regioni (Emilia Romagna) e regioni in  cui i pazienti sono solo in uscita (Puglia, Sicilia). Una varietà notevole, anche se è comune una tendenza che vede un progressivo distacco dal modello prevalentemente medico per giungere ad un modello che consideri non solo il paziente ma l’intera persona e la famiglia. (ska)

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