Istruire i figli a casa? Gli esperti: manca l’incontro con l'altro
ROMA - L’istruzione parentale interessa, ma non convince: se istruire i figli a casa è un diritto e una possibilità, non è detto però che questa sia la scelta migliore. C’è anzi il rischio che privi i ragazzi di opportunità, nel momento stesso in cui si propone di offrirgliene di più. Così la pensano alcuni esperti di pedagogia ed educazione, a cui abbiamo chiesto un parere sull’esperienza dell’istruzione parentale, relativamente diffusa in Italia (circa mille alunni “a casa”), molto più affermata negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Per Marco Rossi Doria, ex sottosegretario all’Istruzione e un passato da maestro di strada, esperto di questioni educative, l’istruzione parentale “è un tentativo di protezione dalle difficoltà e dalle frustrazioni del mondo, nel quale una società che ha perso i riti di passaggio e che dentro le comunità non è più capace di regolare bene i passaggi di età in maniera rituale, chiede a se stessa di estendere i propri compiti, per paura che qualcun altro si occupi di presentare il mondo ai propri consanguinei". "Personalmente – continua – preferisco che il mondo sia scoperto dai bambini e dai ragazzi prima al caldo della famiglia, come è giusto che sua, poi man mano nel più ampio tessuto di rapporti complessi, difficili, speranzosi, sorprendenti. Che il ‘lessico familiare’ debba estendersi ben oltre la prima infanzia, fino a coprire gli altri luoghi della scoperta delle relazioni e del mondo, con il rischio di forme di controllo sempre più parossistiche da parte dell’ambito familiare ristretto, non è una prospettiva che mi esalta".
"Mi pare – continua Rossi Doria - che il rischio di impedire una crescita autonoma e condizionare i processi di differenziazione e di identificazione che caratterizzano la crescita umana siano molto elevati. Forse, se fossero conservati dei veri riti di passaggio con le loro durezze, una piccola comunità potrebbe ancora assolvere a funzioni di emancipazione progressiva dei propri appartenenti nell’età della crescita. Ma poiché questo non c’è, sono solo i rischi a prevalere”. Infine, “va anche notato che chi se lo può permettere non deve scendere la mattina da casa per andare a lavorare”: una scelta non per tutti, insomma.
Giulia Tosoni lavora per l’associazione Ed-work, il network che mette rete vari esperti di questioni educative: “Fermo restando che, come tutti i sistemi di istruzione che non sono dentro il sistema statale, necessitano di certificare quello che i bambini e i ragazzi imparano, la mia principale preoccupazione riguarda la convivenza tra diversi. La cosa bella della scuola è che ci si incontra con persone che sono molto diverse da noi. - spiega - Questo può esser complicato e difficile ma fa un gran bene. Non mi piace immaginare una società in cui ciascuno possa educare i propri figli a modo suo. Oggi si può imparare in tanti modi, ma l’aspetto sociale è a rischio. Immagino poi che sia una scelta per pochi: per chi può permettersela. Questi ragazzi insomma da un lato vivono il privilegio, dall’altro perdono una grande occasione di incontrarsi con gente completamente diversa. Se poi è il modello scolastico dominante a essere sotto accusa, con il tempo costretto tra compiti a scuola e compiti in classe, voglio ricordare che tante scuole si stanno inventando vari modi per uscire dalla rigidità: penso alle classi capovolte, che fanno fare in classe le esercitazioni sotto la guida degli insegnanti e a casa la ricerca e le esplorazioni”. Un’altra scuola insomma è possibile: anche in classe. (cl)