23 novembre 2023 ore: 11:39
Società

Italia: 13.518 nidi e servizi per la prima infanzia, per oltre 350 mila posti. Ma il target Ue è lontano

I dati Istat. A causa del calo delle nascite si riduce gradualmente il gap fra bambini e posti nei nidi, ma le richieste di iscrizione sono in gran parte insoddisfatte, soprattutto al Sud. La spesa impegnata dai Comuni nel 2021 per i servizi all’infanzia ammonta a un miliardo 569 milioni di euro (+16,9%), di cui il 16,7% rimborsata dalle rette pagate dalle famiglie (263 milioni di euro)
Asilo nido, nidi, minori, manina di bambino che gioca

Nell’anno educativo 2021/2022 sono attivi 13.518 nidi e servizi integrativi per la prima infanzia e sono autorizzati oltre 350 mila posti (48,8% dei quali a titolarità pubblica). A causa del calo delle nascite (dunque dei potenziali utenti dei servizi), si riduce gradualmente il gap fra bambini e posti nei nidi, la frequenza si avvicina al target europeo fissato per il 2010 (33%) ma resta ampia la distanza rispetto al target per il 2030 (45%). A dirlo è l'Istat, nel suo report "Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia. Anno educativo 2021/2022".

In ripresa dopo la pandemia l’offerta dei nidi (+1.780 posti), ma le richieste di iscrizione sono in gran parte insoddisfatte, soprattutto al Mezzogiorno (66,4% nel pubblico, 48,7% nel privato).
Nell’accessibilità al servizio penalizzate le famiglie più povere, sia per i costi delle rette, sia per la carenza di nidi in diverse aree del Paese. Ma vediamo nel dettaglio i numeri e le considerazioni Istat.

In parziale ripresa l’offerta di nidi dopo la pandemia

Nell’anno educativo 2021/2022, dopo il calo dei posti disponibili registrato durante la pandemia, si ha un parziale recupero dei servizi più strutturati, ovvero i nidi d’infanzia (l’80,6% dell’offerta complessiva) e le sezioni primavera. Queste ultime coprono il 12,7% dei posti e accolgono bambini da 24 a 36 mesi in sezioni di nido che sono situate generalmente presso le scuole d’infanzia.

Nei nidi (incluse le sezioni primavera) sono offerti circa 1.700 posti in più rispetto al 2020/2021, recuperando quasi completamente il livello del 2019. Invece i servizi integrativi per la prima infanzia (nidi in contesto domiciliare, spazi gioco, centri per bambini e genitori) subiscono un ulteriore calo di 2.000 posti e arrivano a coprire il rimanente 6,7% dell’offerta.

Complessivamente, l’offerta resta sostanzialmente stabile rispetto al precedente anno: 13.518 servizi attivi e 350.307 posti autorizzati al funzionamento (-0,1%).
La percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti tra 0 e 2 anni di età raggiunge il 28%, con un leggero incremento (0,8%) rispetto al 2020/21, dovuto alla contrazione delle nascite e alla conseguente riduzione dei potenziali beneficiari del servizio. Il target del 33% da raggiungere entro il 2010 (come definito dal Consiglio Europeo di Barcellona nel 2002) è così gradualmente avvicinato, ma resta decisamente lontano il nuovo obiettivo europeo del 45% di bambini frequentanti servizi educativi di qualità entro il 2030.
A livello nazionale, il parametro del 33% di copertura dei posti nei nidi rispetto ai bambini residenti è stato fissato come Livello Essenziale delle Prestazioni (LEP) da garantire a livello territoriale entro il 2027 (Legge finanziaria per il 2022 n. 234/2021).

Il Mezzogiorno ancora lontano dagli obiettivi europei

"A livello territoriale, sono ancora ampi i divari dell’offerta educativa che potrebbero essere attenuati grazie agli investimenti previsti dal PNRR e alle recenti politiche di ampliamento e di perequazione", si afferma.
Il Centro-Italia e il Nord-est in media hanno una copertura dei posti ben superiore al 33% dei bambini residenti (36,7% e 36,2%, rispettivamente), il Nord-ovest è prossimo all’obiettivo (31,5%), ma il Sud e le Isole, seppur in miglioramento, sono ancora lontani (16,0% e 16,6% rispettivamente).

A livello regionale l’Umbria è la regione con il più alto livello di copertura (43,7%), seguita da Emilia Romagna (41,6%), Valle d’Aosta e Provincia Autonoma di Trento (41,1%). La Toscana, il Friuli-Venezia Giulia e il Lazio si attestano sopra la soglia del 33% (38,4%, 36,8% e 36,1%). Di contro, fra le regioni del Sud, restano ancora al di sotto del 15% Campania, Sicilia e Calabria (11,7%, 13% e 14,6% rispettivamente), mentre la Sardegna con il 32,5% fa registrare il livello più alto.

I capoluoghi di provincia hanno una copertura media del 35,3%, mentre i Comuni non capoluogo, nel loro insieme, hanno una copertura di posti inferiore di ben dieci punti percentuali (24,9%).

Sotto la media europea la frequenza del nido

In Italia la frequenza di un servizio educativo per la prima infanzia risulta inferiore alla media europea: nel 2021 i bambini che frequentano una struttura educativa risultano pari al 33,4% dei residenti di 0-2 anni (contro il 37,9% della media Ue). La Francia e la Spagna sono ben al di sopra del 50% e altri paesi, come l’Olanda e la Danimarca, si attestano al 74,2% e al 69,1% rispettivamente.

La percentuale italiana comprende peraltro una quota (quasi il 5% dei bambini di 0-2 anni) di bambini iscritti alla scuola di infanzia come anticipatari, quindi inseriti in strutture per bambini da 3 a 5 anni senza gli adattamenti previsti ad esempio nelle sezioni primavera. Pertanto, sono meno del 30% i bambini al di sotto dei 3 anni che trovano collocazione nei servizi educativi specifici per la prima infanzia.

Grandi divari territoriali nella spesa pubblica per i servizi all’infanzia

Una quota rilevante delle risorse destinate al funzionamento dei nidi e degli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia vengono gestite a livello locale dai Comuni e dalle forme associative tra Comuni limitrofi. Infatti, i Comuni sono titolari del 34% delle unità di offerta, in cui si trova il 48,8% della disponibilità complessiva di posti. Il rimanente 66% delle strutture e il 51,2% dei posti è di titolarità privata, di cui una parte in convenzione con i Comuni.

La spesa impegnata dai Comuni nel 2021 per i servizi all’infanzia ammonta a un miliardo 569 milioni di euro (+16,9% rispetto al 2020), di cui il 16,7% rimborsata dalle rette pagate dalle famiglie (263 milioni di euro). Al netto della compartecipazione degli utenti, la spesa a carico dei Comuni ha recuperato completamente il calo del 2020 (+11,4%) e si attesta leggermente al di sopra del 2019 (1,3 miliardi di euro). L’ammontare delle rette pagate dagli utenti, seppure in aumento del 55,4%, si attesta leggermente al di sotto dell’ultimo dato precedente la pandemia, confermando un utilizzo delle strutture da parte delle famiglie, nel corso del 2021, che resta inferiore rispetto al 2019. Il numero di bambini iscritti nei servizi educativi comunali, privati convenzionati o che ricevono contributi da parte dei Comuni, ridotto del 10,5% nel corso del 2020 (quasi 21mila in meno), nel 2021 recupera quasi 14.000 unità e si attesta su oltre 190.000 iscritti (il 15,2% dei residenti fra 0 e 2 anni).

Ai divari registrati nella dotazione dell’offerta si accompagnano grandi disparità anche nella quota di bambini che usufruiscono dell’offerta pubblica (dal 32,1% della Provincia Autonoma di Trento si arriva al 4,2% della Campania) e nelle risorse utilizzate dai Comuni a sostegno del sistema educativo per la prima infanzia: la spesa per bambino residente passa da oltre 2.600 euro dei Comuni capoluogo del Centro-nord a 255 euro dei Comuni non capoluogo del Mezzogiorno.

La media pro-capite della spesa per i nidi e per gli altri servizi per la prima infanzia tiene conto del fatto che non tutti i Comuni sostengono spese per le strutture, comunali o in convenzione, o erogano contributi alle famiglie per integrare le rette. A livello nazionale sono il 59,6% i Comuni che garantiscono un’offerta sul territorio, quota che raggiunge l’84,2% al Nord-est e si riduce al 40% nelle Isole.

Anche per l’anno educativo 2021/2022, l’obiettivo del 75% di copertura dei Comuni, singoli o in forma associata, indicato dal Decreto legislativo 65/2017 non è stato raggiunto a livello nazionale, ma è stato superato da cinque regioni, di cui quattro del Centro-nord (Valle D’Aosta, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana), più la Provincia Autonoma di Trento e una del Sud (la Puglia).

In aumento la domanda del nido

L’andamento delle domande pervenute, la capacità dei servizi di accogliere le richieste di iscrizione e le politiche di agevolazioni tariffarie sono elementi oggetto di una specifica Rilevazione svolta nel 2022 su un campione rappresentativo di nidi e sezioni primavera.
Nell’anno educativo 2021/2022, sebbene risulti evidente ancora l’impatto della pandemia sulla frequenza del nido, è in aumento la domanda in molti dei servizi contattati (45%), soprattutto al Mezzogiorno (47,7%).

Si stima anche una grande frequenza delle richieste di iscrizione non accolte per carenza di posti: il 63% dei nidi pubblici e il 40,7% dei privati non hanno accolto ad inizio anno tutte le domande pervenute. Soprattutto nel Mezzogiorno è stata più avvertita la pressione sui servizi da parte delle famiglie e le barriere all’accesso hanno lasciato bambini in lista d’attesa in oltre due terzi delle unità di offerta pubbliche e in quasi la metà di quelle private.

Eterogenei i criteri di accesso al nido utilizzati dai Comuni

"La selezione all’entrata delle famiglie che richiedono l’iscrizione al nido pubblico o al privato convenzionato avviene attraverso i criteri adottati dai Comuni per la formazione delle graduatorie di accesso - afferma l'Istat -. Grazie a un modulo aggiuntivo integrato alla Rilevazione sui nidi e i servizi integrativi per la prima infanzia, è stato possibile analizzare questo aspetto in maniera uniforme e comparabile su tutto il territorio. La scheda utilizzata rileva i requisiti che consentono l’inserimento in graduatoria con una priorità relativa definita attraverso l’attribuzione di punteggi numerici".

Sono molto eterogenei i criteri utilizzati dai Comuni per la formulazione delle graduatorie, ne derivano diverse condizioni di accessibilità e inclusività dei servizi sul territorio. Tra i requisiti che danno diritto a un punteggio di priorità, quelli più utilizzati (da quasi tutti i Comuni) sono inerenti al lavoro dei genitori. Le famiglie con entrambi i genitori che lavorano, in particolare, ottengono il punteggio massimo più frequentemente, in quasi la metà dei Comuni interessati (49,5%). La conciliazione tra famiglia e lavoro resta dunque elemento centrale per le graduatorie di accesso al nido.

Ancora poco rilevante, dal punto di vista dell’accessibilità, il peso dato alla funzione educativa e di contrasto alle disuguaglianze dei servizi per la prima infanzia. Solo un quarto dei Comuni considera gli indicatori della situazione economica (ISEE) tra i criteri per la formulazione delle graduatorie e circa il 5% attribuisce il massimo del punteggio alle famiglie economicamente svantaggiate.

I nuclei mono genitoriali, ovvero i bambini con genitori separati, vedovi, o riconosciuti da un solo genitore ottengono il punteggio massimo solo nel 19% dei Comuni. La disabilità del bambino è il requisito che riceve la maggior tutela da parte dei Comuni: se da un lato il 18,3% delle graduatorie attribuisce il massimo del punteggio a questo requisito, il 76,6% dei Comuni che utilizzano criteri di priorità assoluta garantisce l’accesso al nido a prescindere dalla graduatoria. La scheda infatti rileva anche gli eventuali requisiti di priorità assoluta, che garantiscono l’accesso al servizio senza tener conto della graduatoria: dopo la disabilità, il più frequente è l’appartenenza a nuclei familiari presi in carico e segnalati dai Servizi sociali per grave disagio sociale e/o economico (59,3%), seguono i bambini adottati o in affidamento e gli orfani (circa il 19% dei Comuni), i bambini collocati in strutture residenziali (17,5%), i bambini con un solo genitore (15,1%).

Lo svantaggio economico non sempre prioritario nell’accesso al nido pubblico

Le condizioni di svantaggio economico delle famiglie nella maggior parte dei casi non comportano la priorità nell’accesso al nido pubblico, salvo i casi di grave disagio socio-economico certificato dai servizi sociali. Le condizioni economiche, tuttavia, possono avere un ruolo importante nella definizione delle rette a carico delle famiglie.
"Diversi provvedimenti nazionali ed europei, del resto, individuano l’estensione dei servizi educativi per l’infanzia e la loro gratuità come importanti strumenti di contrasto alla povertà educativa e all’esclusione sociale nell’infanzia, auspicando la riduzione dei divari nelle opportunità di accesso per le famiglie", si afferma.

Per quanto riguarda le politiche di agevolazioni tariffarie, l’Indagine campionaria del 2022 registra che i meccanismi di riduzione della retta basati sull’indicatore della situazione economica sono diffusi, ma non in maniera universale: li utilizza il 38% dei servizi presenti sul territorio nazionale, quota che sale al 63% nel settore pubblico e si riduce al 23% nel privato. Inoltre, sono meno del 10% le unità di offerta che praticano l’esenzione totale della retta sulla base di indicatori di situazione economica (il 19% nel pubblico e il 3,5% nel privato).

Per quanto riguarda l’importo delle rette pagate dalle famiglie, si registra una grande variabilità che dipende dalle politiche dei governi locali relative ai servizi per l’infanzia, dalla titolarità del servizio, dal modello gestionale, dal territorio e dalla singola unità di offerta. In media, nel 2021 i Comuni hanno ricevuto dalle famiglie 1.719 euro per bambino iscritto nelle strutture comunali.

Sempre più diffusi i contributi statali a sostegno della domanda

Al fine di superare le barriere economiche di accesso al nido, le misure contributive erogate dal settore pubblico a sostegno della domanda possono svolgere una funzione determinante. È stato in particolare rilevato un crescente ricorso al “bonus asilo nido”, introdotto dal 2017 ed erogato dall’Inps a rimborso delle spese sostenute dalle famiglie per la frequenza di nidi, sezioni primavera e servizi di educativa domiciliare. Nel 2021 i beneficiari del bonus sono stati oltre 358 mila, circa il 27% in più rispetto al 2020 e in aumento anche rispetto all’ultimo anno pre-pandemia (+24% rispetto al 2019). Cresce anche la quota dei fruitori del bonus rispetto alla popolazione di riferimento (bambini di 0-2 anni): 28,6% nel 2021, 21,9% nel 2020 e al 21,7% nel 2019.

Aumentano gli importi erogati dall’INPS (oltre 420 milioni di euro nel 2021, circa il doppio di quelli relativi all’anno 2020) che recuperano la flessione dovuta a un minor utilizzo dei servizi a causa della pandemia, e superano di molto l’importo erogato nel 2019 (+184 milioni di euro). Questo andamento testimonia un sempre più ampio utilizzo della misura statale, anche grazie all’incremento dell’importo massimo erogabile 5 introdotto a partire dal 2020: crescono infatti anche gli importi medi annui per beneficiario, pari a 1.184 euro nel 2021, rispetto a 736 euro del 2020 e a 832 euro del 2019.
Restano ampie le differenze territoriali: nel 2021 la quota di bambini beneficiari del bonus sui bambini di 0-2 anni è 19,7% al Sud, 21,7% nelle Isole, 31,5% al Nord-ovest, 31,8% al Nord-est, 37% del Centro.

Nel confronto tra utilizzo del bonus e disponibilità di posti nei servizi educativi per la prima infanzia, si registra che, nel 2021, il numero di bambini beneficiari raggiunge il numero di posti e addirittura lo supera in quasi tutte aree del Paese, grazie alla rotazione di più bambini negli stessi servizi nel corso dell’anno. Ciò conferma la diffusione del contributo e come la scarsità di posti ne limiti le potenzialità di incentivare la domanda e di riequilibrare le diseguaglianze dell’offerta. I beneficiari del bonus superano i posti disponibili nei servizi soprattutto al Sud e nelle Isole, dove l’offerta è più carente.

I contributi statali non riequilibrano le diseguaglianze

Alle diseguaglianze territoriali nella distribuzione dei fruitori del bonus si accompagnano anche divari nell’allocazione delle risorse: l’importo medio pro-capite per bambino di 0-2 anni è 192 euro al Sud, 243 euro nelle Isole, 386 euro al Nord-est, 412 euro al Nord-ovest, fino ai 436 euro nel Centro.
Sommando la spesa dell’INPS (oltre 420 milioni di euro) alla spesa dei Comuni singoli e associati (1,3 miliardi di euro) le risorse pubbliche complessivamente impiegate per consentire alle famiglie la fruizione del nido, ammontano a poco più di 1,7 miliardi di euro nel 2021.

In termini pro-capite un bambino residente beneficia in media di 1.382 euro, ma con ampie differenze territoriali: al Centro si ha la spesa più alta (2.191 euro), pari a 4 volte la spesa pro-capite del Sud. A livello regionale la media della Valle d’Aosta (3.626 euro) è 10 volte maggiore delle risorse per bambino residente della Calabria (331 euro).

Persistono squilibri socio-economici nell’accesso al nido

Persistono gli squilibri nel profilo socio-economico delle famiglie che utilizzano il nido. I bambini che frequentano il nido hanno più spesso entrambi i genitori occupati, con un maggiore livello di istruzione e con un reddito più alto rispetto ai bambini che non frequentano. L’accessibilità economica del nido, ossia il costo elevato delle rette, unitamente alle barriere all’accesso dovute alla scarsità di posti, rappresentano ancora un ostacolo per molte famiglie, nonostante i contributi introdotti dallo Stato e da diverse Regioni.

Nel 2021 il reddito medio equivalente delle famiglie che iscrivono i bambini al nido è 19.800 euro, contro i 16.100 euro di quelle che non lo utilizzano. Il rischio di povertà è tra le condizioni che limitano l’utilizzo del nido, creando una forbice di circa 10 punti percentuali rispetto ai nuclei che non vivono la stessa condizione sociale: solo il 17,9% i bambini di 0-2 anni a rischio di povertà sono iscritti al nido, contro il 27,5% dei loro coetanei.

I criteri di accesso al nido pubblico, che privilegiano le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, operano una selezione all’ingresso che tende ad escludere le famiglie monoreddito, tendenzialmente meno abbienti e meno inclini a sostenere l’ammontare della retta nei nidi privati.
La condizione lavorativa della madre è la discriminante maggiore della frequenza del nido, infatti, i bambini con la madre lavoratrice frequentano nel 34,2% dei casi, contro il 12,9% dei bambini la cui madre non lavora.

Anche un più alto titolo di studio dei genitori garantisce ai bambini maggiori opportunità di accesso al nido: si passa dal 36,9% di frequenza nelle famiglie con almeno un genitore laureato (o con titolo superiore) al 16% per famiglie con al massimo il diploma di scuola secondaria superiore.
Dal punto di vista socio-economico la distanza fra le famiglie che utilizzano il nido e quelle che non lo utilizzano sembra non attenuarsi, al contrario i divari risultano più accentuati nel 2021 rispetto al 2017.

In calo gli iscritti in anticipo alla scuola d’infanzia

Nell’anno educativo 2021/2022 sono iscritti in anticipo alla scuola d’infanzia 58.600 bambini di 2 anni, di cui il 54,6% risiede nelle regioni del Mezzogiorno: il fenomeno degli anticipi è più diffuso nelle aree meridionali del Paese: la quota di anticipatari sui coetanei residenti (bambini di 2 anni) è 9,5% al Centro-nord rispetto al 20,9% del Mezzogiorno (13,5% la media nazionale).

A livello regionale la Calabria presenta il livello più elevato di bambini in anticipo: 26,7% dei bambini di 2 anni, a fronte di una quota solo del 3,5% in Trentino Alto Adige. La maggiore incidenza del fenomeno degli anticipi al Mezzogiorno appare strettamente connessa con le storiche diseguaglianze territoriali nell’offerta di servizi educativi per i bambini di 0-2 anni.

Nelle regioni meridionali, dove è ancora scarsa la disponibilità di posti nei servizi, sono più elevate le quote di bambini di 2 anni iscritti alla scuola d’infanzia mentre al Centro-nord a più alti livelli di copertura dei servizi corrispondono quote più basse di anticipatari. Si può quindi ipotizzare che la scarsità dell’offerta di servizi per bambini sotto i 3 anni si traduca in anticipi alla scuola d’infanzia, contraddistinta da una diffusione sul territorio molto più ampia e capillare rispetto ai nidi d’infanzia, che comunque resta non adatta alle specifiche esigenze dei bambini di 2 anni.

Le scelte delle famiglie possono essere influenzate anche da motivazioni economiche. La scuola di infanzia ha dei costi decisamente più contenuti rispetto a quelli del nido: nel 2021 la spesa media annua delle famiglie che hanno usufruito di scuole dell'infanzia pubbliche e private (comprensiva dei costi per tasse, rette e servizio di mensa) è stata di 676 euro, contro i 1.758 euro sostenuti in media per la frequenza dei nidi pubblici e privati.

La quota di anticipatari sui bambini di 2 anni diminuisce regolarmente nel tempo (15,6% nel 2014/2015 fino al 13,5% nel 2021/2022). Nell’anno educativo 2020/2021 la flessione è più accentuata, in linea con la riduzione generalizzata degli iscritti alla scuola d’infanzia per la pandemia da Covid-19.
Il calo più evidente registrato al Mezzogiorno (da 25,8% del 2014/2015 a 20,9% del 2021/2022), trasmette incoraggianti segnali di miglioramento: è plausibile che le scelte delle famiglie si stiano man mano orientando verso percorsi educativi più adatti alla fascia di età dei bambini di 2 anni, da un lato grazie al progressivo arricchimento della disponibilità di posti nei servizi educativi anche nelle aree più svantaggiate, dall’altro per effetto della sempre maggiore fruizione di contributi statali.
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