Italia “paese di montagna che ha dimenticato di esserlo”. Serve uno sguardo nuovo
ROMA - Ripensare il rapporto tra città e montagna e rendere quest’ultima parte di un territorio che non sia più considerato lontano, spopolato o semplicemente bisognoso di aiuto. A lanciare questa sfida innanzitutto culturale è il nuovo libro nato in seno all’associazione Riabitare l’Italia dal titolo “Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia” edito da Donzelli e curato da Filippo Barbera, professore di Sociologia economica all’Università di Torino, e Antonio De Rossi, professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana, direttore dell’Istituto di Architettura montana e della rivista internazionale ArchAlp presso il Politecnico di Torino. Il saggio, che raccoglie contributi di Giovanni Carrosio, Federica Corrado, Giuseppe Dematteis, Mauro Fontana, Arturo Lanzani, Sabrina Lucatelli, Andrea Membretti, Loris Servillo, Giulia Valeria Sonzogno e Mauro Varotto - e le interviste a Paolo Cognetti, Luca Mercalli, Marco Bussone e Fabrizio Barca -, è il terzo curato dall’associazione e come i precedenti raccoglie analisi e riflessioni che mirano a coinvolgere il dibattito pubblico attorno al tema delle aree interne e montane del nostro paese.
Sebbene il tema non sia nuovo, con la pandemia da Covid-19 si è tornati a parlare di montagna e aree interne in modo molto più assiduo e per gli autori è ora di ripensare l’approccio istituzionale verso questo territorio che nonostante occupi larga parte del nostro Paese, troppo spesso viene considerato marginale. “Si tratta di un momento particolarmente favorevole - sottolinea Barbera -. La pandemia ha funzionato da acceleratore. È giunto il tempo per riconoscere la montagna come soggetto morale, coautore paritario delle norme a cui è soggetta e non come soggetto bisognoso”. Ed è questo il primo salto in avanti da fare in questi mesi, aggiunge De Rossi. “Il tema non è più mettere a punto politiche di supporto per qualcosa che viene pensato come sottosviluppato e marginale - spiega De Rossi -, ma mettere in campo politiche di natura organica che si distribuiscano con specifici gradienti sull’articolarsi di qualcosa che ha al centro le grandi città, ma anche città pedemontane e la stessa montagna”.
L’idea della “metromontagna” circola già da qualche anno tra gli addetti ai lavori. A formulare questo concetto, già una decina di anni fa, è stato Giuseppe Dematteis, fondatore e presidente dell'Associazione Dislivelli. “Per diverso tempo il termine è rimasto nell’ambito delle scienze territoriali - spiega De Rossi -, ma negli ultimi anni ha interessato anche il dibattito politico”. Ed oggi è pronto a suggerire alla politica e alle istituzioni un nuovo modo di intendere i territori montani e quelli limitrofi. “L’idea è di offrire una nuova chiave di lettura del policentrismo territoriale italiano che non sia basata su immagini dicotomiche e semplificanti - spiega Barbera - ma che siano curvate sulla complessità territoriale. La metromontagna è una delle dimensioni di questa complessità: non è una peculiarità, una curiosità o un vezzo. L’Italia è un territorio metromontano, un paese di montagna che ha dimenticato di esserlo”.
Il testo si occupa in modo specifico delle regioni del Nord Italia, dove la presenza di grandi città e città pedemontane è molto diffusa, ma le riflessioni contenute nel libro sono destinate ad alimentare il dibattito complessivo sul tema. “Si è sempre messo l’accento sulla creazione di confini che contenessero al loro interno un’omogeneità e questa è quasi un’ossessione della modernità - spiega De Rossi -, cioè quella di descrivere il territorio configurandolo come una classificazione di aree fortemente omogenee all’interno dei propri confini. L’ottica della metromontagna è esattamente il contrario e punta su meccanismi relazionali”. La costruzione della metromontanità, come scrivono i due curatori nell’introduzione, infatti, “non può però essere ricondotta a un solo problema di policies, di atti e accordi istituzionali, di confini e interdipendenze funzionali, ma è strettamente connessa al tema delle trasformazioni culturali e degli immaginari contemporanei, delle biografie degli attori e dei soggetti che, nel darsi fattivo delle pratiche e delle esperienze, stanno già configurando oggi una nuova dimensione metromontana”.
Se le dodici fotografie di Michele D’Ottavio contenute nel libro ben descrivono il contesto di cui si occupa il testo, è il saggio di Giuseppe Dematteis e Federica Corrado ad inquadrare il tema. “Per geografia metromontana intendiamo una descrizione ragionata di possibili relazioni virtuose tra centri metropolitani e territori montani - si legge nel resto -. Essa si basa su fatti oggettivi come i flussi di servizi ecosistemici, la chiusura di cicli, i differenziali climatici, i rapporti input-output tra le imprese, le risorse produttive naturali riutilizzabili, le filiere corte del cibo, la gravitazione per lavoro e servizi, le reti infrastrutturali e così via. Ma non solo. Fanno parte di questa geografia anche le interazioni immateriali, le immagini progettuali, gli scambi e le ibridazioni culturali città-montagna, le rappresentazioni e le valutazioni soggettive come, ad esempio, l’identificazione della montagna con un ambiente favorevole a nuove esperienze di vita individuali e comunitarie”. Ma in questa relazione, cosa ha da dare la montagna alla città e cosa la città può fornire alla montagna oggi? “La montagna ha da dare tutti quelli che vengono chiamati servizi ecosistemici - spiega De Rossi -: acqua, aria, speriamo un giorno anche di più il legno. Ha da dare una qualità di vita non tanto turistica, ma dell’abitare, della residenzialità”. Dall’altro lato, invece, la città ha il compito di fornire “cose apparentemente più evidenti”, spiega De Rossi, che riguardano le competenze, con “il grande tema del trasferimento di innovazione tecnologica appropriata che irradino i territori montani e rurali. Temi su cui siamo molto indietro”. E poi ci sono i giovani, sottolinea Barbera, “forze nuove e fresche” di cui la montagna ha un estremo bisogno.
Sono proprio i giovani a riversare uno sguardo nuovo verso la montagna e le aree interne. A dimostrarlo è la nascita di movimenti e reti, come la rete Rifai, mentre alcune ricerche condotte da Riabitare l’Italia parlano di una generazione che sempre più decide di restare. Una delle esperienze di ritorno alla montagna raccontate nel saggio è quella dello sportello torinese “Vivere e lavorare in montagna” nato con l’obiettivo di accompagnare chi sceglie di andare a vivere nelle Alpi piemontesi. “Le oltre 200 persone che negli ultimi tre anni si sono rivolte al servizio si caratterizzano per una certa omogeneità dal punto di visto socio-anagrafico - scrive Andrea Membretti, professore di Sociologia del territorio all’Università di Pavia - : giovani ma non giovanissimi (con un’età media intorno ai 35-40 anni ma con un range compreso tra i 16 e i 65 anni), in leggera prevalenza maschi, dotati di titoli di studio elevati (e in ulteriore crescita), sono quasi sempre in possesso di una posizione lavorativa stabile e in molti casi hanno qualche risorsa economica che vorrebbero investire nel loro progetto montano”.
Tuttavia, questi “progetti” hanno bisogno di “tanta manutenzione per essere trasformati in veri progetti di impresa ed economicamente sostenibili - spiega Barbera -. Soprattutto avrebbero bisogno di un maggiore accesso al credito, che è la cosa più difficile. C’è bisogno di un mix di strumenti pubblici e privati, anche a fondo perduto, che sulla base della sostenibilità e della bontà imprenditoriale del modello, ne finanzino le fasi iniziali di presa in carico del rischio d’impresa. Questa è una debolezza che riguarda anche i fondi regionali che sono poco indirizzati a sostenere la transizione e l’innovazione per chi voglia aprire un’attività economica legata alla terra o in montagna”.
Per De Rossi, questo nuovo sguardo rivolto alla montagna fa ben sperare. “È radicalmente mutato l’immaginario e questo vale sia per chi arriva dalla città, ma anche per le nuove generazioni di chi abita la montagna - spiega De Rossi -. C’è un orgoglio e un’appartenenza tra i giovani che non ha riscontri con la storia del 900. Un fenomeno culturalmente molto complesso e sappiamo che non c’è politica che possa incidere sulle cose se non c’è una trasformazione culturale e di immaginario di partenza”. Indubbio, per De Rossi, il merito della Strategia nazionale per le aree interne. “Al di là delle difficoltà burocratiche, ha permesso di riparlare in termini nuovi di qualcosa che era stato completamente tolto dall’agenda politica - aggiunge De Rossi -. Credo che abbia avuto il merito di riconfigurare i temi dei servizi socioassistenziali, la formazione e il diritto alla mobilità e all’accessibilità, dove ad un certo punto i territori avevano quasi vergogna di chiedere per le risposte che ricevevano dallo Stato centrale, come ad esempio tenere aperta una piccola scuola o un punto nascita. Non credo che si colga quanta rabbia è stata accumulata su queste cose e non c’è da meravigliarsi di certe manifestazioni di protesta che possono anche prendere le forme sbagliate che sappiamo”.