Depositata la sentenza 221/2019 della Corte Costituzionale che respinge il ricorso di due coppie di donne che chiedevano l’accesso alla procreazione assistita, vietato dalla legge 40/2004. Smontate le tesi presentate: per i giudici costituzionali non esiste alcun diritto a procreare
Il divieto, per le coppie formate da persone dello stesso sesso, di accedere alla procreazione medicalmente assistita, previsto dalla legge 40/2004, è del tutto legittimo: l’esclusione dalle tecniche di fecondazione artificiale delle coppie formate da due donne (o da due uomini) non rappresenta infatti una discriminazione basata sull'orientamento sessuale.
A sancirlo è la Corte Costituzionale, che con la sentenza 221/2019, depositata oggi 23 ottobre, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate (in due distinti casi) dai Tribunali di Pordenone e Bolzano su numerose norme (articoli 1, 4, 5 e 12) della legge che in Italia regola la fecondazione artificiale. In entrambi i casi, si trattava di due coppie di donne, unite civilmente, che avevano chiesto alle rispettive Asl di appartenenza, vedendosi opporre un rifiuto, l’accesso a pratiche di procreazione medicalmente assistita, consentite dalla legge alle sole “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
Le motivazioni della sentenza
Nelle motivazioni della sentenza, la Corte Costituzionale presenta una serie di ampie argomentazioni, ricordando che non può considerarsi “irrazionale e ingiustificata la preoccupazione normativa di garantire il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato”, né può ritenersi “arbitraria o irrazionale” l’idea che la famiglia composta da “due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato”.
La Corte non accoglie le considerazioni avanzate dai giudici, contestando le affermazioni riguardanti una presunta corrispondenza fra i casi di “adozione in casi particolari” e la procreazione medicalmente assistita (fra le due fattispecie, dice la Corte, c’è una “differenza essenziale”), come pure la presunta ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche sottesa alla possibilità di recarsi all'estero per poter avere accesso alle tecniche (non “una valida ragione”, sentenzia la Corte). Viene sottolineato come “l’infertilità ‘fisiologica’ della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all'infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive” e viene respinta anche l’argomentazione che il divieto di accesso alla Pma incida negativamente sulla salute della coppia.
Per la Consulta, in definitiva, è pienamente legittimo il bilanciamento voluto dal legislatore.
Alla radice di tutto, da parte della Consulta viene sottolineato che l’interrogativo di fondo che il giudizio di legittimità costituzionale si è trovato ad affrontare è “se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an (cioè del suo stesso riconoscimento, ndr) e del quando (il momento in cui esso è emanato, ndr), ma anche del quomodo (del procedimento concreto attraverso il quale è riconosciuto, ndr), e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare – prosegue il ragionamento della Corte - si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato”. La scelta della Consulta è caduta su questa seconda prospettiva.
Ecco di seguito alcuni stralci, riportati nella loro interezza, della sentenza della Corte Costituzionale.
Il quesito di fondo: esiste un diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale?
La legge 40/2004 costituisce la “prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali” (sentenza n. 45 del 2005). La materia tocca, al tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998).
La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato.
Le due impostazioni di fondo della legge 40/2004
La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati.
La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre:
L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull'intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata).
L’infertilità fisiologica della coppia omosessuale
Non vi è … alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all'infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale.
Anche per la Cedu non c’è disparità di trattamento
In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Il Parlamento non è andato oltre il suo compito
Il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza. (…) Nella specie … la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata.
L’idea di famiglia come “luogo” più idoneo ad accogliere il nato
Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. (…) L’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali.
Differenza fra adozione e fecondazione artificiale
La Corte non accetta il paragone avanzato fra procreazione medicalmente assistita e i casi di “adozione in casi particolari” con i quali alcuni giudici hanno concesso l’adozione al partner (dello stesso sesso) del genitore biologico del bambino. Scrive la Corte:
Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale). La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.
Turismo procreativo? No, nessuna discriminazione economica
La Corte Costituzionale respinge la tesi
secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono. In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all'estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.
Non esiste la soddisfazione di ogni bisogno o aspirazione soggettiva
Neppure è ravvisabile la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull'assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia. La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione.
E di fronte ai tentativi di appellarsi alla Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità in materia di non discriminazione, tutela della salute, rispetto della vita privata, la Corte riprende le precedenti argomentazioni aggiungendo. “È evidente che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili»”.