La riforma? “Importante, ma il terzo settore non si valuta con il fatturato”
ROMA – Da presidente della Commissione Affari sociali di Montecitorio ha seguito molto da vicino l’iter del ddl delega di riforma del terzo settore: argomento più che mai vicino, dato anche il suo impegno nella Comunità di Sant’Egidio. Ora, ad approvazione avvenuta, Mario Marazziti ne dà un giudizio positivo, ma con la cautela di chi sa che i passi avanti normativi dovranno trovare concretezza nelle azioni delle persone e dei tanti enti di terzo settore attivi in questo paese. Un paese che deve molto ad un terzo settore chiamato ora anch’esso, secondo il deputato di Democrazia Solidale – Centro Democratico, ad un salto di qualità.
Marazziti, quali i punti più rilevanti della riforma?
Credo che la novità principale sia che ora si sa cosa è il terzo settore: è un primo passo importante e reale. Si è chiarito il perimetro, chi è terzo settore e chi non è terzo settore pur facendo cose utili (es. le fondazioni bancarie) e si è affermata la carta di identità del terzo settore, legata a finalità in campo civico e solidaristico e di utilità sociale, non profit. Non è una definizione per negazione, come avvenuto fino ad oggi, con una impostazione che metteva al centro la onlus, l’ente non commerciale, dando spazio purtroppo anche ad abusi che hanno danneggiato tutti. La chiarezza nella definizione è certamente il primo punto, cui segue il riconoscimento del ruolo di sussidiarietà sociale vera.
Eppure la riforma è stata molto travagliata. Quale può essere una sua utilità concreta?
Intanto credo che si sia scongiurato il rischio di enfatizzazione eccessiva dell’impresa sociale all’interno del terzo settore, dando rilevanza anche a chi è prevalentemente caratterizzato da volontariato e associazionismo. Per queste piccole realtà credo che i vantaggi possano essere molti. Vedo con favore un nuovo meccanismo sul sistema del cinque per mille, che porti ad una identificazione certa dei soggetti e anche a percorsi di assegnazione più rapida dei fondi. Personalmente auspicherei che in fase di attuazione da parte del governo si possa ovviare alla necessita (che al momento per tutte le realtà di terzo settore è imprescindibile) di investire fondi per far conoscere il proprio codice fiscale: credo bisognerebbe studiare una modalità per mettere tutti sullo stesso piano. E poi c’è il punto del rafforzamento dei CSV, i Centri di servizio per il volontariato: una rete che già esiste, che si sottopone a criteri di trasparenza e riguardo alla quale mi auguro che essi possano davvero essere di aiuto agli enti più piccoli, per sollevarli dell’onere di appesantirsi per garantire la redazione dei bilanci, la trasparenza e tutto quanto richiesta dalla nuova normativa. Spero che i CSV siano di aiuto all’efficienza delle piccole realtà. Infine c’è la nascita del servizio civile universale, un riconoscimento importante soprattutto dal punto di vista concettuale: importante aver ribadito che si può servire il paese in chiave solidaristica e non violenta.
Renzi parlò di terzo settore “che in realtà è il primo”, espressione che in questi due anni è stata anche molto criticata. Questa legge delega sarà davvero capace di far decollare questo mondo, di farlo diventare il “primo”?
Credo che la norma dia un quadro di certezze, creando un perimetro definito: la legge insomma pulisce il campo, dà un quadro di certezze, crea un perimetro definito, ma il decollo è culturale. Questo paese deve smetterla di parlare solo di soldi, ormai è diventata una malattia. La legge delega è un punto di partenza per un riconoscimento reale ma per diventare davvero il “primo” settore ci sono due modi. Uno è quello di dire che dal 4-5% del bilancio nazionale bisogna diventare il 10-15%: ecco, io non sono di questo partito, io credo che bisogna diventare un modello di organizzazione sociale, evidenziare anche ai soggetti esterni l’importanza di una funzione (anche imprenditoriale) di riequilibrio, di lotta alla disuguaglianza, di inclusione, di qualità della vita. L’impresa sociale, ad esempio, deve avere una funzione di attrazione anche sull’impresa vera e propria per ciò che riguarda il modello di organizzazione interna e le finalità. Questo è il modo di diventare davvero “primo settore”. Fermo restando che già oggi il terzo settore è il “primo” per tutta quella parte del paese che sta peggio e la cui qualità di vita dipende in larga misura dai soggetti del terzo settore.
Non ci si può nascondere però che le due anime del terzo settore, quella dell’associazionismo e del volontariato da un lato, e quella dell’imprenditorialità sociale dall’altro, si siano guardate a lungo – e tuttora si guardino - con diffidenza. Il terzo settore riuscirà a sentirsi una sola cosa?
Io vengo da una storia (la Comunità di Sant’Egidio) dove il volontariato assoluto ha raggiunto una forte capacità di impatto sociale, civile e internazionale senza avere la necessità di fare impresa sociale. Credo che nella gratuità assoluta più che un’anima ci sia una risorsa che va valorizzata nel paese: la gratuità va considerata come una leva di rinascita del paese dove tante brutte storie. In ogni caso non sento in contrapposizione i due mondi, mi interessa che ci sia piena dignità per tutti e – questo sì – che non si valuti l’impatto del terzo settore solo in termini di fatturato.
A proposito di fatturato, è nata – fra mille polemiche – una Fondazione di diritto privato alla quale vengono assegnati, per partire, anche soldi pubblici. Che idea si è fatto?
La Fondazione avrà un milione di euro pubblici con la missione di raccogliere fondi privati aggiuntivi e non sostituivi a favore di progetti del terzo settore. Ora, questa è una cosa tutta da scrivere, una via tutta da esplorare. Potrebbe giocare il ruolo di volano e raccogliere fondi aggiuntivi, oppure potrebbe limitarsi a raccogliere lo stesso tipo di risorse che già ora vanno direttamente ai progetti. Nel primo caso avrebbe una utilità evidente, nel secondo caso diventerebbe quasi una intermediazione, per niente necessaria. E’ una partita tutta da giocare. Con un ordine del giorno ho chiesto al governo che la fondazione non possa chiedere e ottenere quei fondi delle fondazioni che già oggi erogano a favore di progetti di enti di terzo settore, di modo che le risorse siano davvero chiaramente aggiuntive e non sostitutive. La Fondazione avrà senso se saprà davvero attrarre nuovi capitali, e questi dovrebbero andare a quegli enti di terzo settore che vivono prevalentemente di donazioni private. In ogni caso mi auguro che le tante preoccupazioni emerse al riguardo della Fondazione possano già avere una risposta nell’atto iniziale, la definizione dello statuto della Fondazione da parte del governo. E che poi il parlamento abbia una vera possibilità di indirizzo.