La stazione è la mia casa: gli invisibili di “Roma Termini” raccontano se stessi
Un fotogramma del film |
“Ho preso la mia piccola telecamera e sono uscito per le vie della città, ad ascoltare le centinaia di persone che incrociamo quotidianamente: gli invisibili, coloro che vediamo passare e che presto dimentichiamo”. Così racconta il film-maker Bartolomeo Pampaloni a proposito della genesi del documentario “Roma Termini” (78 minuti), che ha appena concluso una programmazione di tre settimane al nuovo Cinema Aquila di Roma. Realizzato a bassissimo costo, il film ha ottenuto una menzione speciale al Festival del Film di Roma 2014; non ha ancora una distribuzione, ma grazie a un passaparola che sembra già molto vivo, ci si aspetta di vederlo preso in varie altre sale cinematografiche italiane.
“Giorno dopo giorno – prosegue Pampaloni – mi sono ritrovato sempre più coinvolto in questo progetto, constatavo quanto queste persone avessero bisogno di qualcuno con cui parlare della propria vita, dei loro problemi, ma anche con cui condividere momenti spensierati e discussioni sul mondo. Sentirsi gente normale, che parla seduta a un caffè, senza pensare, per un attimo, alle angosce del proprio quotidiano”.
Antonio, Gianluca, Stefano, Angelo sono i protagonisti del film, attori nella parte di se stessi nel racconto intenso, doloroso e tuttavia pieno di dignità, della loro caduta sociale e dell’esistenza quotidiana nella nuova condizione di senza fissa dimora, o meglio, nella loro nuova dimora che è la Stazione Termini: lo scalo ferroviario più grande d’Italia (secondo in Europa dopo la Gare de Paris Nord) con 480 mila passeggeri in transito ogni giorno.
- Qui, tra la folla in movimento, la telecamera del regista si aggira rubando (poiché gira senza permessi e quindi senza troupe) le immagini dei cartelloni pubblicitari, andando a scovare i luoghi della stazione dove i clochard si appartano. Registra la monotona voce martellante degli annunci di servizio ferroviario, arrivi partenze e ritardi. Si sofferma infine sui nostri protagonisti, li segue a distanza ravvicinata, mettendo in risalto i loro volti, bellissimi volti che insistentemente prendono tutto lo spazio del grande schermo, divenendo paesaggi umani da contemplare.
Sono quattro storie estratte da circa quattro mesi di riprese. C’è la storia di Stefano, tossicodipendente, che “scolletta” (chiede 50 centesimi a tutti i passanti) tutto il giorno all’uscita della stazione. Lo seguiamo quando va a comprare il metadone, lo vediamo iniettarlo in vena sulla panchina di un parco, non distante da un gruppo di bambini festanti. Lo vediamo vivere la sua inquieta storia d’amore con Hendrix.
C’è la storia di Angelo, che dorme davanti alla vetrina di un negozio a pochi metri dalla Stazione. Il suo è un racconto, sotto forma di confessione, d’amore verso il padre e di odio per la madre, accusata di averlo maltrattato quando era bambino. Il film è a lui dedicato, comunica amaramente un cartello alla fine del documentario, perché deceduto.
Angelo. Uno dei protagonisti |
C’è la storia di Gianluca, nella quale assistiamo ai suoi tentativi di trovare una sistemazione per la notte e seguiamo il suo percorso verso la spiritualità. C’è la storia di Antonio, precipitato dopo il divorzio ritrovandosi a vagare nei meandri della stazione, e in quelli confusi della sua psiche. Annuncia dolorosamente di volersi suicidare, perché non riesce più a reagire, non vede e sente la sua famiglia da molti anni, perché non vogliono sapere più nulla di lui.
Antonio |
L’intero film, lo si rintraccia facilmente, è il percorso di avvicinamento che il regista compie verso i suoi protagonisti. Diventa complice, partecipe, fino a diventare, in qualche modo, uno di loro. La forza del film sta tutta in questa distanza accorciata. I quattro si confidano, soprattutto si fidano del regista, e in questo modo si mettono a nudo, sfogandosi, parlando direttamente alla telecamera, cioè direttamente a Bartolomeo. L’occhio della telecamera e lo sguardo del regista arrivano a coincidere. Abbiamo la percezione di stare a vedere il film direttamente attraverso i suoi occhi, con il movimento del suo sguardo, del suo procedere nell’esperienza tra di loro.
In un momento privato (una scena piena di sentimenti contrastanti, molto commovente, tenera, inquietante e violenta) dove tra Stefano e Hendrix la tensione sale e si arriva ad atti di violenza, sentiamo il respiro del regista farsi sempre più veloce, percepiamo la sua tensione nervosa, il suo timore, probabilmente dovuto al dubbio se intervenire oppure rimanere lì immobile a filmare, per non perdere un’occasione vera, privata e intensa. E questa occasione non la perde.
“Roma Termini” è un film coraggioso che non ci lascia indifferenti, ci fa pensare al cinema di Rainer Werner Fassbinder, per la visione lucida sui meccanismi di potere all’interno della coppia e nelle relazioni umane, con le implicazioni psicologiche che ne conseguono. Ci fa pensare anche a “Amore tossico” di Claudio Caligari, un film importante, un cult degli anni ’80 su un gruppo di tossicodipendenti romani, con attori realmente eroinomani, o con un passato da eroinomane. Come in quel caso, il racconto vero chiaro e profondo, dato da uno sguardo che proviene dall’interno, dai protagonisti che vivono realmente quella vicenda, la macchina cinema ci regala un’opera piena di umanità e un risultato artistico memorabile.
Fotogramma |
Tutto ciò ci costringe a entrare con riguardo nelle vite di queste persone, uomini e donne che incontriamo normalmente nei nostri spostamenti ma a cui spesso prestiamo poca attenzione, o cerchiamo di evitare. Il film ci chiede di ascoltare e guardare ponendoci molte domande, senza strizzarci l’occhio, senza rassicurarci o sgravarci dalla responsabilità di non essere indifferenti e insensibili verso gli altri. (Luca Tortolini)