26 novembre 2020 ore: 12:08
Società

La storia di Luisa, che a 89 anni cuce mascherine nella residenza che la ospita

di Ambra Notari
Dopo decenni passati tra pantaloni, giacche e capispalla, nel 2020 grazie ai tutorial di YouTube ha cominciato a realizzare mascherine. “Qui sto bene, mi hanno rimesso in piedi. Ma mi manca la mia casa: per Natale era piena di luci e persone, oggi è buia e vuota”
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La signora Luisa in occasione della nostra intervista

CASALECCHIO (Bologna) – La signora Luisa fa la sarta da oltre settant’anni. Ha cominciato da adolescente, ha lavorato nell’alta moda e oggi che di anni ne ha 89, non ha perso un pizzico della passione che l’ha sempre guidata. È un’ospite della residenza per anziani San Biagio di Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna. Vive qui da un anno e, complice la pandemia, ha cominciato ad annoiarsi e a immalinconirsi. Così il figlio, grazie alla complicità della psicologa della struttura, ha fatto recapitare una delle sue storiche macchine da cucire, è stato allestito un piccolo laboratorio e oggi Luisa non solo “accomoda” gli abiti di personale e ospiti, ma si è messa a produrre mascherine in stoffa con tanto di ferretto cucito internamente, alcune anche con tasca interna per il filtro.

“È un bellissimo regalo – racconta Luisa in vivavoce –. Ringrazio tanto la psicologa che mi ha aiutato in questo piccolo sogno. Non riesco a non tenermi impegnata, non ne sono mai stata capace. Solo se lavoro e sono attiva mi sento bene. Onestamente pensavo che qui ci fosse più roba da accomodare, ma ho esaurito presto le mie commesse. Così mi sono messa a pensare cosa avrei potuto cucire di utile. Poi, una delle aziende con cui lavoravo mi ha fatto avere un mucchio di tessuto, e ho cominciato a realizzare mascherine: non sono mai abbastanza, visto il periodo. Ho imparato guardando i tutorial su YouTube: li ho visti e rivisti, finché ho capito come fare. Vorrei dedicarmi anche ad altro: cerco sempre nuove idee su internet, preparo i cartamodelli e via. Ho righe e squadre, nemmeno fossi un geometra”.

Quando Luisa comincia a parlare della sua carriera, esordisce dicendo che “è stata ricca di soddisfazioni”. Sin da ragazzina voleva fare la magliaia, di studiare non aveva voglia: “Allora pesavo non più di 37 chili. Quando condivisi le mie ambizioni con mia mamma cominciammo subito a pensare agli strumenti. La macchina del momento era la Durkopp, pesantissima. Mia mamma – anche lei aveva mani d’oro – mi disse che non solo non ce la potevamo permettere, ma che mi sarei ritrovata schiacciata dal suo peso: ‘Poi la gente dice che voglio farti morire’, scherzava”. La guerra imperversava e, da sfollata, la famiglia di Luisa cambiò casa per trovare rifugio con altri bolognesi: “Cominciai a lavorare con mia cugina, faceva i pantaloni. Imparai tanto e, una volta finita la guerra, collaborai con varie sartorie. Realizzavo solo pantaloni: sognavo di fare giacche, ma mi dissero che per imparare ci sarebbero serviti 5 o 6 anni, così rinunciai. Avevo così tanto lavoro che presi un’aiutante: io avevo 15 anni, lei 19. Io minuta, lei un bel pezzo di marcantonia. Per quasi 30 anni ha fatto solo pantaloni da uomo: principe di Galles, grisaglia, beige, tutti i toni del marrone”. Arrivò il matrimonio e un bambino, “ma rimasi vedova giovane, con un bambino piccolo. Misi in piedi una piccola ditta e Les Copains mi chiese di fare pantaloni di donna. In quel momento nella mia vita arrivò l’arcobaleno. Lavorare con i colori era bellissimo, mi appassionai. Poi cominciammo con gonne e capispalla: io imparavo e trasmettevo le conoscenze alle mie ragazze”. Luisa cominciò a collaborare con Ferrè (“Che mi diede l’opportunità di cimentarmi nelle giacche. Non avevo idea di come si facessero, così chiesi di andare da loro per vedere le sarte all’opera. Mi inventai un scusa, dissi che volevo visitarli per essere sicura che i prodotti fossero tutti uguali, ma non era vero! Ero proprio andata a spiare come dovevamo lavorare”) e con Versace: il lavoro cresceva e Luisa assumeva, fino ad arrivare ad avere 38 dipendenti, tutte donne. “Poi cominciammo a lavorare in esclusiva per Les Copains e, qualche anno dopo, il lavoro crollò. Aprirono nuovi laboratori, arrivò la tecnologia. Non ce l’ho più fatta e, con il cuore spezzato, sono andata in tribunale e ho dichiarato il fallimento. Era il 1985. Da allora sono tornata a lavorare da casa, avrò 500 modelli. Ancora oggi le mie bimbe (le ex dipendenti, ndr) mi chiamano, mi vengono a trovare. Mi accorgo, a distanza di anni, di aver lasciato un buon ricordo. Al di là delle tante sfide che il destino mi ha chiamato ad affrontare, mi ritengo molto fortunata, perché ho sempre fatto solo ciò che mi piaceva, a cui ancora oggi non posso rinunciare”.

Luisa, come detto, è nella rsa San Biagio da ottobre 2019: “Mi trovo bene, qui mi hanno rimesso in piedi. Io, però, sono un po’ uno spirito libero, e certe volte le regole mi stanno strette. Ma so che hanno ragione loro, perciò mi adeguo”. Una passeggiata con le amiche, il caffè e il Resto del Carlino al bar: sono queste le cose che, adesso, mancano di più. “E poi la mia casa. Se ci penso mi rattristo. Si avvicina il periodo più bello dell’anno, la festa per noi più importante. La mia casa, per Natale, è sempre stata un tripudio di luci, tra l’albero, il presepe e le decorazioni. Adesso è là, buia e chiusa, come abbandonata, senza un Gesù bambino. Auguro a tutti coloro che ne hanno bisogno di trovare un posto come questo, come San Biagio. Ma la mia casa mi manca tanto, vorrei vederla e viverla: mi mancano le piccole cose legati a bei ricordi, un tegame di rame antico, un piatto attaccato al muro. È stata il mio nido per 63 anni, ma ci tornerò solo quando sarà sicuro. Qui ci sono tante persone che si prendono cura di noi, Laura in primis, so che è ora è giusto stia qui”.

Laura è Laura Annella, psicologa della struttura, gestita dalla cooperativa sociale Cadiai: “Siamo noi a ringraziare Luisa. Lei è una forza della natura, vorrei che la bioingegneria fosse pronta per clonarla. È per noi un’occasione di crescita inestimabile, una fonte inesauribile di conoscenza: è lei ad avere stimolato noi, toccando corde e muovendo cose che nemmeno pensavamo possibili”.

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