La tortura in struttura: 17 arresti a Palermo, in un istituto per disabili psichici
ROMA – La struttura come luogo di tortura: accade così che il luogo che dovrebbe accogliere, proteggere, riabilitare, si trasformi un un luogo di reclusione, umiliazione violenza. Questa volta, a farne le spese sono gli ospiti con disabilità psichica di una struttura di Palermo: rinchiusi nella stanza “relax” per ore, subivano insulti, maltrattamenti e violenze da parte di alcuni operatori, ora accusati di tortura. E si torna, così, a parlare di “lager” e si alimenta l'angoscia, soprattutto, di chi ha paura che un giorno possa toccare al proprio figlio.
Elisabetta Dragonetti è una mamma, una lavoratrice e una “militante” dei diritti delle persone con disturbo psichico: un impegno che porta avanti, a Roma, con l'associazione Solaris. “Noi lavoriamo a stretto contatto con la Asl e c'è un dialogo sempre molto aperto e sinergico: così riusciamo a fare un buon lavoro per affrontare i disagi dei familiari, sia quando abbiano i figli in casa sia quando li abbiano in residenzialità protette o semiprotette gestite dalle Asl e dai dipartimenti e centri di Salute mentale”. Proprio la verifica è per Dragonetti un elemento centrale, un diritto e un impegno a cui famiglie e istituzioni preposte non devono sottrarsi: “Molti familiari non sanno che ci sono organi consultivi, come le consulte cittadine e regionali della salute mentale, che hanno un grande potere di verifica. Noi, per esempio, operiamo in sinergia con la consulta dipartimentale del II municipio, con la consulta cittadina e con quella regionale, pilastro in questa attività di verifica e tutela. Attività queste necessarie soprattutto sulle residenzialità private – precisa Dragonetti - perché quelle della Asl sono in genere più verificate e quindi più affidabili. E questo vale per tutti i tipi di residenzialità, da quelle per anziani a quelle per disabili”.
Se è vero quindi che l'istituzionalizzazione è un modello da superare, “va anche detto che la struttura, in alcuni casi, è necessaria, ma deve rispondere a determinati requisiti di sicurezza e tutela della dignità e dei diritti. Sarebbe opportuno potenziare le strutture residenziali della Asl e del dipartimento di Salute mentale e realizzarne di nuove, più piccole, piuttosto che favorire quelle private”. E poi c'è da investire in tutto ciò che riguarda la “possibile autonomia sociale e abitativa, attraverso il lavoro le quelle che noi chiamiamo le 'chiavi di casa'. Non è facile – ammette Dragonetti –: i pazienti psichiatrici sono anche in grado di mantenere la casa in ordine, ma il problema è l'assunzione dei farmaci, che tendono a interrompere non appena stanno meglio, provocando gravi regressioni e frustrazioni. Il passaggio dalla struttura istituzionale a un cohousing assistito è un momento delicato, che va favorito ma anche seguito con costante attenzione e con una verifica quotidiana, attraverso una rete e delle sinergie che favoriscano il risultato positivo del progetto abitativo”.
Proprio sull'importanza di potenziare questi progetti abitativi e di cohousing, per il superamento dell'istituzionalizzazione e delle sue criticità, insistono e rilanciano le associazioni di caregiver Oltre lo sguardo ed Hermes, attraverso le voci di Elena Improta e Loredana Fiorini: “Lo diciamo da sempre e non ci stancheremo mai di ripeterlo: l'istituzionalizzazione non è la soluzione per le persone con disabilità tanto meno per le disabilità psichiche. Notizie come quella che arriva oggi da Palermo sono troppo frequenti perché non si intervenga in modo deciso nell'intraprendere percorsi e soluzioni alternative all'istituzionalizzazione. I percorsi si chiamano domiciliarità, vita indipendente o, laddove la permanenza bella propria casa risulti impossibile, ci sono i progetti di cohousing. Va detto però che, al di là delle leggi nazionali L.328 e L 112 e quelle regionali, che si esprimono in questo senso da quanto ci risulta dai diversi che seguiamo come associazioni, spesso sono gli stessi servizi , sanitari e sociali competenti , le stesse Asl a suggerire e favorire la soluzione della struttura residenziale, nonostante i proclami delle istituzioni. Conosciamo situazioni di giovani con disabilità che, dopo un percorso di riabilitazione e cura in strutture residenziali sanitarie ex Art.26 , in condivisione con la persona stessa e le famiglie potrebbero esser inseriti in progetti di vita indipendente assistita o di couhousing attraverso la realizzazione di un progetto di vita, quindi di un piano di sostegni e interventi individualizzato, " un abito cucito su misura" eppure assistiamo ancora, malgrado i proclami delle istituzioni, a risposte da parte dei servizi sanitari territoriali che seguono una logica medicalizzante , una visione unicamente sanitaria della disabilità tutta, specie quella complessa e mentale, tale da non consentire altro che la riabilitazione e la permanenza negli istituti residenziali. Si entra così in un circolo vizioso, : un percorso senza via di uscita, che spesso si compie lontano dalla propria casa e dai propri cari, in molti casi in un'altra città e addirittura in un'altra regione, all'interno di strutture che, per carenze organizzative, formative, umane e in assenza di controlli, si trasformano in luoghi di 'tortura' come quello che oggi i giornali ci raccontano. Capite allora perché noi familiari caregiver siamo ogni giorno più preoccupati per il futuro dei nostri figli? Capite perché ci soffoca il terrore che, quando non ci saremo più, possano finire rinchiusi anche loro in quelle stanze, senza nessuno che li liberi, li protegga, li tuteli come ogni essere umano merita? Capite perché occupiamo tutto il nostro tempo per costruire oggi quel 'dopo di noi' che vogliamo vedere prender forma, prima che sia troppo tardi?”