Report “Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". Per il comparto femminile ancora un percorso tutto in salita. Mentre gli uomini che hanno dovuto rinunciare questa via sono solo il 19,9 per cento
ROMA – Carichi familiari troppo gravosi, mancato riconoscimento delle competenze, poche possibilità di fare carriera. Per le donne quello lavorativo è ancora un percorso tutto in salita, dove persistono stereotipi di genere, discriminazioni e sono molto frequenti i casi di rinuncia. Lo dice il report “Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere” presentato oggi dall’Istat. Secondo il rapporto sono oltre 14 milioni, pari al 32,2 per cento della popolazione, gli italiani che nel corso della loro vita, a causa di impegni e responsabilità familiari o semplicemente perché i propri familiari così volevano, hanno rinunciato a lavorare, oppure hanno dovuto interrompere un percorso lavorativo, non hanno potuto accettare un incarico lavorativo o, ancora, non hanno potuto investire come avrebbero voluto nella propria professione. Una rinuncia che però è tutta al femminile: quasi la metà delle donne (44 per cento) si è trovata a dover rinunciare a un’ opportunità o ad adottare comportamenti autolimitanti per ragioni familiari. Mentre gli uomini che hanno dovuto scegliere questa via sono solo il 19,9 per cento.
La rinuncia più frequente è quella a iniziare o a cercare un lavoro (30,9 per cento delle donne a fronte del 12,7 per cento degli uomini). In valori assoluti hanno vissuto questa esperienza 6 milioni 888 mila donne: di queste il 21,7 per cento, pari a circa 1 milione e mezzo, non ha mai fatto ingresso nel mercato del lavoro, neppure per un periodo limitato. Tra i motivi principali: il dover accudire un bambino troppo piccolo (33,8 per cento), il doversi occupare della famiglia (26,6 per cento) e l’aspettare un bambino (13,3%). Per gli uomini che hanno vissuto questa esperienza al primo posto c’è l’obbligo di occuparsi della famiglia (26,2 per cento), seguito dal non volersi trasferire (22,9 per cento) e dall’avere un bambino troppo piccolo (14,5%).
“Il problema della scelta di come fare figli, come occuparsi degli anziani deve avere una maggiore rilevanza sociale.
C’è una distribuzione dei lavori di cura sbilanciata sulle donne – sottolinea la viceministra del Lavoro e delle politiche sociali, Maria Cecilia Guerra -. Dobbiamo superare gli ostacoli normativi che esistono nel campo dei congedi, dei servizi e dell’organizzazione dei tempi di lavoro. Non si possono privare le donne di quell’economia che il lavoro procura, perché queste comporta anche altre conseguenze, come la paura di affrontare una vita indipendente nei casi di violenza”. Secondo la viceministra “bisogna sostenere l’imprenditoria femminile, che è un fenomeno in crescita che resiste alla crisi, noi lo stiamo facendo –aggiunge - destinando una parte del fondo di garanzia alle imprese femminili”.
Tra gli altri dati messi in luce dall’Istat il riconoscimento da parte di oltre la metà degli italiani, che le donne vivono una situazione peggiore degli uomini per quanto riguarda la stabilità del posto di lavoro (53,7 per cento), la possibilità di trovare un posto di lavoro adeguato al proprio titolo di studio o alla propria esperienza (53,1 per cento), la possibilità di fare carriera o di ottenere una promozione (51,7 per cento), il guadagno percepito per lo stesso tipo di lavoro (50,1%). Ma, nonostante le loro difficoltà a entrare nel mercato del lavoro e a ricoprire incarichi di primo piano, la maggioranza della popolazione riconosce alle donne pari competenze rispetto agli uomini e si dice poco o per niente d’accordo con le affermazioni “gli uomini sono dirigenti migliori delle donne” e “in generale gli uomini sono leader politici migliori delle donne” (rispettivamente 80,3 per cento e 79,9 per cento).
Sono soprattutto le donne a manifestare disaccordo (85 per cento circa a fronte del 75 per cento circa degli uomini). Ciò è confermato dal fatto che due terzi della popolazione (67,1%) sono molto o abbastanza d’accordo con l’affermazione: “le donne che ricoprono cariche pubbliche dovrebbero essere più numerose rispetto a quante sono oggi”. Meno nutrita, ma comunque maggioritaria, la quota di popolazione (52,8%) secondo la quale “se ci fossero più donne dirigenti, il mondo degli affari e l’economia ne trarrebbero vantaggio”.
Il rapporto dell’Istat rimarca anche come gli stereotipi sul ruolo della donna siano duri a morire soprattutto al Sud. Nelle regioni del Nord, infatti, è più diffusa la percezione di una condizione di svantaggio delle donne rispetto agli uomini. Il 62 per cento circa della popolazione settentrionale ritiene che la condizione degli uomini nella nostra società sia migliore di quella delle donne, contro il 51,4 per cento dei residenti nel Mezzogiorno. In particolare, è il 57,4% delle residenti nel Mezzogiorno a ritenere peggiore la condizione delle donne a fronte del 69,4% di quelle del Nord-ovest. Inoltre, nelle regioni centro-settentrionali la maggioranza della popolazione ritiene che le donne vivano una condizione peggiore degli uomini rispetto al trovare un posto di lavoro adeguato al proprio titolo di studio o alla propria esperienza, alla possibilità di fare carriera o di ottenere una promozione, al guadagno percepito per lo stesso tipo di lavoro e, infine, alla stabilità del posto di lavoro.
“A Sud c’è un consolidamento maggiore di vecchi modelli di genere da un punto di vista degli stereotipi –aggiunge Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento Statistiche sociali e ambientali dell’Istat -. In linea di principio la maggioranza degli intervistati si dice d’accordo che nella coppia l’uomo e la donna devono condividere il carico di lavoro familiare, poi quando si entra nello specifico è ancora radicata la convinzione che siano gli uomini a dover mantere la donna e di contro che gli uomini siano inadatti a occuparsi delle faccende domestiche. E’ evidente che sia a metà strada della transizione dal modello tradizionale del passato ma non abbiamo ancora un modello che possiamo definire davvero simmetrico”.