27 dicembre 2014 ore: 11:18
Non profit

Marco, volontario tra i malati di Ebola: "Non tornerei indietro"

Dopo due anni vissuti nella più grande favela del Sudamerica, Marco Loiodice, 36enne milanese, è in Sierra Leone al seguito di Emergency. Nell’ospedale di Goderich, cuore dell’epidemia, si occupa di logistica: “Qui mi appassiono ogni giorno"
Ebola, medici visitano paziente

FREETOWN (Sierra Leone) – Secondo l’Onu Freetown, capitale della Sierra Leone, è il nuovo epicentro dell’emergenza Ebola. Per evitare possibili contagi, scuole chiuse, stop alle partite di calcio e alle serate in discoteca. Il Governo ha vietato anche le celebrazioni del Natale, in un Paese in cui le feste cristiane sono vissute insieme ai musulmani: il piccolo Stato dell’Africa occidentale è un perfetto esempio di tolleranza religiosa. Emergency è presente in quei territori dal 2001 con centro chirurgico: allora, la guerra civile era appena terminata e la Sierra Leone aveva il tasso di mortalità più alto al mondo. Lo scorso settembre, per far fronte all’epidemia di Ebola, l’associazione di Gino Strada ha messo in piedi un Centro per la cura dei malati – 22 i posti disponibili – a Lakka, pochi chilometri da Freetown. La settimana scorsa, finanziata dal governo inglese, ha aperto un nuovo ospedale a Goderich (Etc, Ebola treatment center, a 5 chilometri da Lakka): 100 i posti letto, 500 le persone che ci lavorano tra staff medico e non, locali e internazionali. Oggi, Ebola fa tra i 40 e i 50 morti al giorno. “Sono arrivato in Sierra Leone il 12 novembre: all’inizio ho lavorato nel centro più piccolo, ora in quello grande”, racconta Marco Loiodice, 36enne milanese. Loiodice ha già vissuto due vite: la prima nel capoluogo lombardo, dipendente prima di Accenture, poi di Mediaset. La seconda, da cooperante, in giro per il mondo: una prima esperienza a Rocinha, favela di Rio de Janeiro, con la onlus Il sorriso dei miei bimbi, la seconda in Africa con Emergency: “Dopo la meravigliosa esperienza in Brasile, volevo ripartire al seguito di una grande realtà. Ho compilato una domanda per Emergency e dopo 2 giorni la risposta era già arrivata: ero idoneo, mi chiedevano di partire entro 4 giorni. Ne ho contrattati 10: ci ho pensato bene, mi sono confrontato con gli amici, e sono partito”. Marco si occupa di logistica: nel centro di Goderich è il responsabile degli acquisti e del magazzino, ma la priorità di tutti sono le procedure di sicurezza: “Ebola è un’epidemia terribile, di cui si conosce pochissimo. Si trasmette attraverso i liquidi corporei, diventa contagiosa solo quando c’è febbre, che significa che si è nel pieno della malattia. Ovviamente, questo virus diventa epidemia nei contesti di grande povertà, con scarse condizioni igieniche. Per questo la prima regola è: lavarsi sempre le mani”. All’inizio, gli operatori di Emergency che, chiusi nei loro scafandri, passavano casa per casa per prelevare i malati di Ebola venivano considerati untori, portatori di malattie e morte. Oggi ai centri le persone vanno spontaneamente, oppure vengono recuperate dai piccoli centri ospedalieri che non possono occuparsene: “In questi giorni abbiamo vissuto una piccola rivoluzione: prima il test Ebola veniva fatto dallo Stato, e ci impiegava 24 ore. Tantissimo, considerate le tempistiche del virus, che uccide in 7 giorni. Adesso abbiamo un laboratorio autonomo: è arrivata una squadra di laboratoristi dallo Spallanzani (che a Roma ha in cura il medico italiano contagiato, ndr): i risultati arrivano in pochissimo tempo: il paziente è molto più tutelato”.

“Della squadra di Emergency qui fanno parte ragazzi giovani e validissimi, che magari non hanno titoli di studio o percorsi professionali convenzionali, ma che, per la capacità di individuare e risolvere i problemi, raggiungono livelli di eccellenza. Non si fermano davanti a nessun ostacolo, non perdono tempo a rimuginarci su, vanno sempre dritti al punto. Molti sono più giovani me, e io resto ammirato. Sono loro gli uomini e le donne che la rivista Time ha nominato ‘Person of the year’”. E fa l’esempio delle persone che in Sierra Leone chiamano ‘survivor’, i sopravvissuti, che una volta guariti dalla malattia tornano al centro per lavorare, a donare il sangue (ormai sono immuni, e il loro sangue può essere usato per curare l’Ebola), che continuano a combattere un virus che magari ha portato via la loro famiglia. Senza dimenticare tutte le persone che non hanno più un lavoro: “L’occupazione è al 2 per cento, i bambini non vanno più a scuola. Gli insegnanti vengono a cercare lavoro da noi: sono pronti a qualsiasi tipo di lavoro. Senza problemi accantonano tutte le loro competenze per mettersi a disposizione”.

Gino Strada, con tutta la dirigenza, al momento è in Sierra Leone, e da lì, qualche giorno fa, ha lanciato un allarme: “Molti medici e infermieri italiani sono pronti a darci una mano, ma non hanno ottenuto dalle Asl l’aspettativa necessaria. Spero che qualcuno ci faccia il regalo di Natale. Ogni giorno qualcuno muore perché mancano i medici che l’avrebbero potuto curare”. “Sono appena arrivati una ventina di coreani – spiega Marco –, tra poco ci raggiungeranno colleghi sudamericani. Lavorare qui è estremamente stressante, l’errore può fare la differenza tra la vita e la morte. Il personale infermieristico lavora 24 ore su 24”. “In questo Paese più di 160 operatori sono morti combattendo Ebola. Siamo abituati a stare anche 12 ore in sala operatoria, ma lavorando a 18 gradi: gli scafandri di protezione indossati nella zona rossa, invece, sono forni che rendono i turni massacranti. È dura resistere per più di un’ora”, ha scritto Gino Strada. “Sono orgoglioso di poter dare il mio piccolo contributo – aggiunge Marco – Qui tutti cercano di farti sentire a casa: viviamo in grandi case neo-coloniali con tante stanze, facciamo vita di comunità. Per le feste organizzeremo qualche cena speciale, insieme”.

Torneresti indietro, al quartiere Ponte Lambro, periferia milanese? “A Ponte Lambro sto bene, è alla vita di prima che non tornerei. Qui continuo ad appassionarmi, dall’Italia me ne sono andato perché non avevo passione. E appena il lavoro me lo permetterà, scapperò per qualche giorno ad abbracciare i miei bimbi della favela di Rocinha”. (Ambra Notari)

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