Meno pillole, più servizi: nuovi studi bocciano l’uso di farmaci antipsicotici
“La terapia farmacologica a lungo termine favorisce la guarigione delle psicosi?”. Il capitolo dedicato ai farmaci nel libro “Recovery – Nuovi paradigmi per la salute mentale” (a cura di Antonio Maone e Barbara D'Avanzo, Raffaello Cortina Editore) pone un interrogativo fondamentale nella gestione della cura per chi soffre di disturbo mentale. L'autore del capitolo, lo psichiatra Angelo Barbato, offre una risposta negativa molto articolata, riportando i risultati diversi studi realizzati sul tema negli ultimi anni.
Studi citati da Barbato documentano come i pazienti meno disciplinati nell'assumere la terapia farmacologica nel lungo periodo stiano meglio di quelli più ligi nell'assunzione quotidiana dei medicinali prescritti. Lo studio condotto dallo psichiatra olandese Lex Wunderink nel 2013 documenta come, dopo sette anni dall'inizio di una terapia, coloro che hanno interrotto o ridotto l'assunzione dei farmaci antipsicotici hanno avuto un "esito migliore" nel doppio dei casi rispetto a coloro che sono stati regolari nel prendere le medicine (40 per cento contro 18 per cento). Questo è avvenuto anche se nel breve periodo i risultati sembravano essere opposti: dopo un anno e mezzo "tasso di ricaduta del 21 per cento per la terapia di mantenimento e del 43 per cento per la terapia interrotta o ridotta".
Barbato evidenzia che il dato risultante dallo studio epidemiologico olandese è stato riscontrato da diversi studi naturalisticiche hanno “generato l'impressione” che “in molti casi i farmaci antipsicotici perdano con il tempo la loro efficacia o tendano a indurre una cronicizzazione, con il peggioramento di alcuni sintomi”. Barbato sostiene la tesi della possibilità di riabilitazione con strumenti diversi dai farmaci e basati sul lavoro dei servizi sociali, citando uno studio realizzato su un gruppo di persone con diagnosi di schizofrenia che rifiutavano i farmaci e a cui è stato proposto supporto attraverso attività di servizi. “I risultati sono stati sorprendenti”, afferma Barbato sottolineando che nel successivo anno e mezzo solo il 10 per cento di loro ha subito un ricovero a causa di una crisi. Questo studio, pubblicato nel 2014 su Lancet, "è destinato probabilmente ad aprire una nuova era nella ricerca sugli interventi psicosociali nelle psicosi", afferma Barbato. La necessità di “cambiare atteggiamento” è sostenuta dall'autore anche citando uno studio del 2010 che afferma il “possibile ruolo dei farmaci antipsicotici nella riduzione del volume cerebrale con ampliamento degli spazi ventricolari”, nonché “la correlazione tra dosaggio cumulativo, esposizione prolungata e mortalità”.
“Il tempo di una profonda riconsiderazione di questo tema è arrivato e i professionisti della salute mentale non possono sottrarvisi- afferma nelle conclusioni Barbato – abbiamo materiale per rivedere in modo razionale l'uso dei farmaci, riconoscendone il ruolo circoscritto”. Oggi, suggerisce, “sono due le forze che sostengono l'uso acritico e ripetitivo dei farmaci antipsicotici: l'ideologia e la paura del rischio”. “La paura del rischio alimenta una pratica difensiva e minimalista, priva di coraggio e di apertura all’innovazione, facilitata dalla sordità riguardo alle evidenze, sempre più rilevanti, che riguardano gli interventi psicosociali nelle psicosi". Secondo l'autore è questa la ragione per cui gli interventi psicosociali "stentano a entrare nella pratica dei servizi e nella cultura dei clinici". "Ma il tarlo del dubbio ormai si è insinuato e questo fa pensare che lo spazio sia aperto per una battaglia culturale su questo argomento - afferma Barbato - se non ora quando?” (Ludovica Jona)