Migranti, caporalato e malaccoglienza: il “laboratorio Basilicata” funziona a metà
ROMA - Aumentano i contratti ma nei campi permangono condizioni di sfruttamento e caporalato: anche il “laboratorio Basilicata” per il lavoro in agricoltura si conferma un percorso a metà. Lo dice il rapporto di Medici per i diritti umani (Medu) che da agosto a ottobre 2016, in collaborazione con Arci Iqbal Masih di Venosa, ha operato in Basilicata, nell’area del Vulture-Alto Bradano, in numerosi insediamenti informali situati nei comuni di Venosa, Palazzo San Gervasio e Montemilone. Con una clinica mobile, il team formato da una coordinatrice, un medico, un mediatore culturale e un operatore socio-legale, ha prestato prima assistenza medica e orientamento socio-sanitario a 192 migranti – 177 uomini e 15 donne – provenienti per la gran parte dall’Africa sub sahariana occidentale, realizzando in totale 269 visite mediche.
Nel report Medu spiega come la regione abbia rappresentato nel corso degli ultimi anni, e in particolare a partire dal 2014, un laboratorio di pratiche per il superamento dell’illegalità e dello sfruttamento lavorativo in agricoltura, senza però riuscire a diventare un modello a tutti gli effetti. “Molti dei provvedimenti adottati, seppur virtuosi nell’intento, si sono dimostrati solo parzialmente efficaci, rappresentando l’avvio di un percorso e non la soluzione al problema”, scrive Medu. Tra gli esempi quelli delle liste di prenotazione, scarsamente efficaci nel garantire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e il superamento del caporalato. O ancora dei centri di accoglienza che, in assenza di un servizio di trasporti e di mediatori culturali e operatori in grado di fornire un orientamento mirato sui temi del lavoro e dell’accesso ai diritti e ai servizi, sono stati poco fruiti e non hanno di fatto contribuito a contrastare le dinamiche di sfruttamento e illegalità. Anche per i controlli, “il cui aumento rappresenta certamente un importante passo avanti – sottolineano - ma ancora insufficiente dal momento che riguarda solo la regolarità dell’assunzione e non le condizioni di lavoro”.
Chi sono i braccianti visitati da Medu? Dei 192 pazienti, 171 hanno dichiarato di lavorare o cercare impiego nel settore agricolo. Si tratta di una popolazione giovane, con un’età media di 33 anni, per il 60 per cento dei casi presente in Italia da più di 3 anni e, in più della metà dei casi, con un livello sufficiente di conoscenza della lingua italiana. I principali paesi di provenienza sono Burkina Faso, Costa d’Avorio e Sudan. La quasi totalità dei lavoratori (91 per cento) era regolarmente presente in Italia ed era titolare principalmente di permessi di soggiorno per motivi umanitari (41%), lavoro subordinato e autonomo (24%) e protezione internazionale (16%). Erano inoltre presenti alcuni lavoratori con permesso di soggiorno semestrale per richiesta asilo (6%) perché in fase di ricorso contro il diniego della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Medu rileva, inoltre, l’incremento, rispetto agli anni passati, della popolazione femminile negli insediamenti informali, in particolare nel ghetto di Mulini-Matinelle dove vivevano circa 40 donne, in molti casi coinvolte in attività di prostituzione. Quasi tutte provenivano dalla Nigeria, avevano un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, alcune invece erano probabilmente minorenni. Medu ha visitato e fornito orientamento sociale e sanitario – attivando anche interventi specifici, volti all’emersione del fenomeno della tratta – a 11 pazienti, che nella maggior parte dei casi si erano rivolte al medico per un sospetto di gravidanza. Nessuna era in possesso di un permesso di soggiorno.
Le condizioni di lavoro: “Quando vengono a fare i controlli parlano coi padroni e non con i lavoratori”. La quasi totalità dei braccianti visitati (90%) dichiara di essere stato assunto regolarmente, ma allo stesso tempo molti lavoratori lamentano di aver ricevuto solo la comunicazione dell’avvenuta assunzione senza aver mai firmato un contratto di lavoro. Mediamente i braccianti sono stati impiegati per 15 giorni al mese, lavorando circa 7 ore al giorno e raccogliendo 17 cassoni da 300 kg a testa. Il 70 per cento dei braccianti dichiara di essere stato pagato a cottimo, in media 3,7 euro per cassone e di non sapere se gli saranno versati i corrispettivi contributi per accedere alla disoccupazione agricola. Si configura pertanto una situazione di lavoro grigio: è presente un contratto, ma le modalità e l’entità della retribuzione non corrispondo a quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale e da quello Provinciale (C.P.L.) e i contributi vengono versati dalle aziende solo parzialmente, in assenza di controlli efficaci. Emblematica, a tale proposito è la dichiarazione di Bashir, paziente del Sudan: “Quando vengono a fare i controlli sul campo parlano solo con i padroni e non con i lavoratori”, non contraddetta dall’Ispettorato del Lavoro il quale afferma che i controlli riguardano esclusivamente la regolarità delle assunzioni e non le modalità con cui è impiegato il lavoratore. Se da un lato quindi l’aumento delle ispezioni ha costituito un forte incentivo alla regolarizzazione, quantomeno formale, dei braccianti, esso tuttavia non si è ancora dimostrato uno strumento risolutivo nel contrasto delle irregolarità contrattuali e dello sfruttamento lavorativo. A ciò contribuiscono la mancanza di alternative concrete e di un’adeguata informazione sui diritti sul lavoro. Per quanto concerne l’intermediazione di manodopera, il 70 per cento dei braccianti intervistati ha dichiarato di lavorare per conto di un caporale il quale trattiene una percentuale variabile per ogni cassone raccolto (da 0,50 a 2 euro) e di pagare per il trasporto in auto in media 4,5 euro. L’istituzione nel 2014 delle liste di prenotazione pubbliche ha determinato nel primo biennio un significativo incremento del numero dei lavoratori assunti attraverso tali liste (820 nel 2014 e 920 nel 2015), seguito nel 2016 da una contrazione (600 lavoratori) che è probabilmente da attribuire non ad un calo percentuale, ma ad una complessiva riduzione del numero di lavoratori impiegati nel settore a causa della criticità descritte. Nonostante l’aumento dei contratti, la figura del caporale resta centrale per il reclutamento e il pagamento dei lavoratori, nonché per l’organizzazione e il trasporto delle squadre di lavoro, in mancanza di un servizio efficace che garantisca realmente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e di un sistema di trasporto verso le aziende. Inoltre la chiamata dei lavoratori avviene in modo nominale e non in base all’ordine di iscrizione. In tal modo accade che siano gli stessi caporali ad indicare al datore di lavoro quali lavoratori assumere.
La questione abitativa: casolari, centri di accoglienza e sgomberi. Nonostante l’apertura di due centri di accoglienza a Palazzo San Gervasio e a Venosa, Medu stima che anche quest’anno circa 1000 lavoratori stranieri abbiano trovato rifugio in case abbandonate, baracche e tende nei comuni di Venosa, Palazzo San Gervasio e Montemilone. Si tratta di edifici fatiscenti, dislocati in luoghi isolati e privi di acqua, luce e servizi igienici. Tali insediamenti informali hanno conosciuto un’ulteriore espansione rispetto alla stagione precedente in seguito allo sgombero del ghetto di Boreano avvenuto nel luglio 2016. Già con una prima ordinanza dell’ottobre 2014, il Comune di Venosa aveva disposto che venissero liberati i fabbricati e le aree circostanti e demoliti gli edifici dichiarati inagibili, ma di fatto solo cinque casolari sono stati abbattuti. Tra il 2015 e il 2016 una serie di tragici accadimenti interessano contrada Boreano: nel settembre 2015, Immah, un ragazzo ghanese di 25 anni, viene trovato impiccato senza vita in un rudere e nel 2016 tre incendi colpiscono l’area. Dopo un primo allontanamento “informale” a febbraio dei pochi abitanti rimasti nel ghetto e altre due ordinanze a giugno 2016, lo sgombero avviene definitivamente il 28 luglio, ma solo pochi lavoratori stranieri si spostano nei centri di accoglienza allestiti. Il perché è ben illustrato dalle parole di due lavoratori del Burkina Faso: “Nel centro di accoglienza non si trova lavoro e non ci sono autobus per andare a lavorare. I capi hanno paura di avvicinarsi e gli italiani non ti vengono a prendere. Il trasporto da lì costa 10 €, il doppio di quanto paga chi abita nei casolari”. La gestione dei centri di accoglienza è stata affidata per il terzo anno dalla Regione Basilicata alla Croce Rossa Italiana. I centri – la ex-cartiera di Venosa e l’ex-tabacchificio di Palazzo San Gervasio – sono stati aperti rispettivamente a metà maggio e metà agosto e fino alla chiusura a fine ottobre hanno ospitato in totale 390 persone. Anche quest’anno, come nei precedenti, potevano accedervi solo i lavoratori titolari di permesso di soggiorno, previa iscrizione alle liste di prenotazione. La capienza massima di ciascun centro è di 150 unità e constano di un’unica zona che fa da dormitorio e cucina. Non essendo previsti trasporti per e dai luoghi di lavoro, il ricorso al caporale ha continuato a rappresentare l’unica possibilità per raggiungere i campi. Secondo Medu, quindi, per il terzo anno quindi i centri hanno funzionato da semplici dormitori, peraltro con standard insufficienti, invece di assolvere alla funzione per la quale erano stati concepiti, quella cioè di offrire servizi a tutela dei lavoratori e di agevolare l’incontro tra questi e i datori di lavoro.
La salute e l’accesso alle cure. Soltanto il 56 per cento dei pazienti regolarmente soggiornanti visitati dall’unità mobile di Medu era in possesso della tessera sanitaria con l’assegnazione di un medico di medicina generale. La scarsa integrazione sanitaria è dovuta principalmente alla mancanza di informazioni sulla procedura di iscrizione, all’elevato grado di mobilità dei lavoratori, impiegati in modo stagionale, alla precarietà delle condizioni di vita, all’impossibilità di ottenere l’iscrizione anagrafica per i titolari di permesso di soggiorno che non sia per protezione internazionale o motivi umanitari e per i lavoratori che vivono fuori dai centri di accoglienza. Tra le patologie più frequentemente riscontrate sono state le patologie muscolo-scheletriche (23%), dell’apparato respiratorio (23%), dell’apparato digerente (19%). Si tratta nella maggior parte dei casi di disturbi correlati alle critiche condizioni abitative e lavorative. Seguono i cosiddetti “disturbi mal definiti” (8,7%), ovvero vaghi e non correlati ad una diagnosi specifica, quali cefalee, disturbi del sonno, malessere generale, che riflettono una condizione di malessere tanto fisico quanto psichico, correlato verosimilmente alla alta precarietà di vita delle persone visitate. Altre patologie riscontrate sono quelle cutanee (6,9%) e di natura infettiva, prevalentemente gastroenteriti virali e micosi cutanee (5%). Tra queste non sono state riscontrate patologie da importazione.