21 febbraio 2018 ore: 13:19
Immigrazione

Migranti, sempre più italiani accolgono (davvero) "a casa loro"

Sono oltre 400 le famiglie che negli ultimi anni hanno aperto le porte a rifugiati e richiedenti asilo. Un esercito invisibile di cittadini che sfida la diffidenza e crea comunità. L’analisi nell’ultimo rapporto sul diritto d’asilo di Fondazione Migrantes. “Un welfare dal basso che rimette al centro le persone”
Gioia di Lamine Diatta/Fondazione Migrantes Asilo Migrantes - illustrazione pag 62

Gioia di Lamine Diatta/Fondazione Migrantes, Report 2018

- ROMA – “Sei favorevole all’accoglienza dei migranti in Italia? Allora portateli a casa tua”. E’ un’espressione che si sente ormai ripetere spesso, diventata negli ultimi anni quasi un modo dire. Eppure c’è chi in questi anni le porte di casa le ha aperte davvero per ospitare per un periodo più o meno lungo un rifugiato. A partire dalle prime sperimentazioni del comune di Torino dieci anni fa, con il progetto “Rifugio diffuso” iniziato nel 2008, diversi progetti sono stati portati avanti soprattutto a partire dal 2015, quando iniziò quella che fu chiamata “crisi dei rifugiati nel cuore dell’Europa”. Parallelamente all’aumento del numero di richiedenti asilo sul territorio italiano sono aumentate, infatti, anche le espressioni di solidarietà e di desiderio di coinvolgimento da parte di molti cittadini. A fotografare il fenomeno è il dossier Il diritto d’asilo 2018, presentato oggi a Ferrara dalla Fondazione Migrantes.   

Oltre 400 famiglie hanno aperto le porte negli ultimi tre anni. Nel dossier si sottolinea come alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti. Nello specifico, in un capitolo dedicato, Chiara Marchetti, analizza 7 esperienze di accoglienza in famiglia locali o nazionali. Negli ultimi tre anni oltre 400 nuclei familiari hanno accolto almeno 500 persone (soprattutto rifugiati ma anche richiedenti asilo); alcune sono finanziate con fondi Sprar, altre con fondi Cei dell’8 per mille, altre ancora tramite fund raising e donazioni private. “L’Italia si trova in una fase in cui la messa a sistema dell’accoglienza istituzionale dei richiedenti protezione internazionale è venuta a corrispondere con il momento in cui il numero di domande di asilo è andato crescendo molto rapidamente, passando dalle 26.620 del 2013 alle 123.482 del 2016, con un corrispondente ampliamento del numero complessivo di migranti accolti, che nel corso del 2016 ha superato complessivamente quota 200 mila – sottolinea Marchetti -. Tuttavia tale incremento non ha coinvolto in modo proporzionale le persone cui è stata riconosciuta una qualche forma di protezione che rappresentano una minoranza degli accolti. Queste carenze in termini di accoglienza per i titolari di protezione internazionale non sono d’altra parte compensate da efficaci politiche di integrazione. Questo significa che una volta usciti dal sistema dedicato di non si trovano nelle politiche pubbliche misure e servizi che facilitino l’integrazione e impediscano – o quantomeno rendano più difficile – una caduta nella marginalità e nell’esclusione sociale. Tutto ciò avviene nel contesto di un peggioramento della percezione degli italiani nei confronti degli stranieri in generale, ma più specificamente nei confronti di profughi e rifugiati che solo negli ultimi anni sono entrati nel dibattito pubblico e politico come fenomeno a sé stante”. Nonostante questo, però, c’è stato anche un incremento della sensibilità e del desiderio di attivarsi per aiutare richiedenti asilo e rifugiati, con manifestazioni di solidarietà, espressioni concrete di vicinanza ed aiuto, organizzazione dal basso di servizi e supporti materiali e sociali. “Non è un caso quindi che da diverse parti sia sorta l’idea di sperimentare dei progetti che potessero affrontare contemporaneamente molti dei problemi appena espressi, valorizzando al contempo la disponibilità spontanea di tanti cittadini residenti – spiega ancora la ricercatrice – In questo senso tutte le esperienze di accoglienza di rifugiati in famiglia mettono a tema il contatto interculturale e il supporto nell’orientamento e nella socializzazione dei rifugiati come parte di un più complesso percorso di integrazione sociale che risponde in qualche misura alle carenze dei sistemi istituzionali in favore dei titolari di protezione, ma che allo stesso tempo valorizza l’apporto positivo di quelle componenti della società italiana che mostrano solidarietà ed empatia nei confronti dei rifugiati e una pi ùgenerale apertura verso la creazione di comunità interculturali”.

L’accoglienza in famiglia che crea comunità. Anche se l’obiettivo è comune, i progetti che prevedono l’accoglienza in famiglia seguono modalità diverse. Nel dossier vengono analizzati innanzitutto a seconda della fonte di finanziamento (pubblica o privata), della fase in cui viene prevista l’accoglienza in famiglia (dopo il riconoscimento della protezione, durante la procedura di asilo o indifferentemente), la propensione a favorire il coinvolgimento di famiglie italiane o di connazionali degli ospitati (accoglienze etero o omoculturali), la partecipazione più o meno attiva e integrata degli enti locali, la matrice religiosa o laica dei progetti. Alcune esperienze, infatti, nascono nell’ambito delle accoglienze istituzionali (soprattutto all’interno del sistema Sprar, ma talvolta anche Cas), altre invece sono iniziative esplicitamente extraistituzionali e autogestite, come nel caso di Refugees Welcome. Tra le esperienze pioneristiche vengono quelle portate avanti dalla rete di coordinamento Non solo asilo Piemonte, Europa Asilo, CocoPa, Ciac onlus e Recosol. Progetti che hanno dal basso sollecitato le istituzioni ad aprirsi a forme di accoglienza innovativa. Diverso, invece, il caso di Refugees Welcome iniziativa che ha portato in Italia un’idea nata in Germania e di cui nel report vengono messe in luce alcune criticità, che si basano proprio sul fatto di essere extra istituzionale. “Quando famiglie e rifugiati si incontrano, quando vivono insieme una quotidianità, cambia lo sguardo di quel singolo rifugiato non solo sulla famiglia in cui vive ma su porzioni più ampie della società. E viceversa – aggiunge Marchetti -. Lo sguardo della famiglie parte dai migranti conosciuti in carne ed ossa e si posa in modo differente sugli altri stranieri che vivono nelle nostre città. Quando tutti i soggetti entrano in relazione in modo virtuoso – conclude la ricercatrice – l’accoglienza in famiglia si integra nelle politiche pubbliche di cittadinanza e partecipazione, restituendo centralità ai soggetti marginalizzati, visti solo come beneficiari di un welfare in decadenza”. (ec)

 

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