18 aprile 2020 ore: 00:00
Immigrazione

Migranti. “Sotto padrone”, così le agromafie sfruttano i lavoratori nei campi

di Eleonora Camilli
Il libro di Marco Omizzolo è un viaggio tra le campagne dell’agro pontino. Con una metodologia da prassi etnologica l’autore si immerge nella realtà del fenomeno e porta il lettore con sè tra la fatica dei braccianti sfruttati
Sotto padrone, copertina

ROMA -  Tutto inizia con una banale caduta in bicicletta e una mano tesa come aiuto a rialzarsi. Samir è uno dei tanti indiani sikh impiegati nelle campagne dell’agro pontino, Marco Omizzolo è un giovane neolaureato in sociologia, in procinto di iniziare la sua tesi di dottorato sulle migrazioni. Quell’incontro fortuito e provvidenziale, avvenuto nel 2008, sarà l’inizio di una relazione di conoscenza e studio, fatta di ricerca sul campo, battaglie al fianco dei lavoratori e minacce. Un viaggio nel cuore delle agromafie dell’agro pontino raccontato in “Sotto padrone, uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana”, libro edito da Feltrinelli. Sociologo, ricercatore per Eurispes, consulente di Amnesty International e In Migrazione, Omizzolo è oggi tra i maggior esperti italiani di lavoro in agricoltura. Un impegno che gli è valso nel 2019 il riconoscimento di cavaliere della Repubblica da parte del presidente Sergio Mattarella per la sua lotta coraggiosa contro il caporalato. 

Con una metodologia da prassi etnologica l’autore si immerge nella realtà del fenomeno che intende raccontare. E così si infiltra tra i braccianti, ne conquista la fiducia anche grazie a un viaggio in Punjab, ne diventa interlocutore privilegiato. In questa ricostruzione, lunga anni, porta il lettore a scoprire il lato nascosto dell’agricoltura italiana: “quella rete criminale che si incontra perfettamente con la filiera del cibo, dalla produzione al trasporto”. Un’economia non osservata il cui indotto stimato è di circa 208 miliardi di euro. E che si regge sullo sfruttamento dei lavoratori, nella maggior parte dei casi senza tutele e diritti. Omizzolo ne racconta le storie, accendendo i riflettori sul sistema consolidato di caporalato. Ci porta tra la fatica degli indiani sikh costretti ad assumere sostanze stupefacenti per reggere il dolore delle ore interminabili di lavoro. Ci racconta come il diffondersi delle sostanze dopanti tra i braccianti sia un ulteriore business per le mafie che controllano il settore. Ci parla di ricatti, violenze, suicidi e minacce. Intimidazioni che lui stesso ha ricevuto per essersi battuto al fianco di questi lavoratori, nella rivendicazione di un salario equo e maggiori tutele. Ci dice che attraverso l’uso di fitofarmaci made in China le mafie stanno avvelenando la produzione e l’ambiente che ci circonda. 

Ma nel libro non mancano neanche le storie di riscatto, a partire dal primo sciopero autorganizzato dai sikh dell’agro pontino, nell’aprile 2016. Una data storica che segna la linea di confine e iniziare a sradicare un sistema di potere,  un primo passo perché gli “schiavi” diventino “lavoratori” e i “padroni” “datori di lavoro”. 

Nel libro un’attenzione particolare è dedicata al linguaggio, parte integrante della lotta allo sfruttamento, che si regge anche sulla retorica dettata dal sistema dominante di potere. In questo contesto anche i media hanno un ruolo fondamentale: ad accendere i riflettori su quello che accadeva nei campi sono stati anche i giornalisti che hanno scritto, filmato e raccontato cosa c’era dietro tutto quello che arriva nelle nostre tavole. Ma il ruolo centrale resta quello di chi è riuscito a ribellarsi alle ingiustizie: di Gurmukh, Kuldip, Benedetto. “Quando un bracciante ridotto in schiavitù decide di parlare, di cambiare il suo presente e non farne il suo destino come vuole qualcuno - scrive Omizzolo - allora la storia cambia. E non solo la storia di quel singolo bracciante, invisibile agli occhi di tutti, ma la storia di tutti”.



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