Minori in comunità, no alle differenze tra regioni: le linee guida delle associazioni
Ragazzi nella stanza da letto
ROMA - Creare degli standard di accoglienza a livello nazionale per i minori e diffondere i modelli che funzionano meglio. E’ questo l’obiettivo del gruppo di lavoro formato dalla Consulta delle associazioni e delle organizzazioni, coordinata dall’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza, che questa mattina ha presentato il documento: “Comunità residenziali per minorenni: per la definizioni dei criteri e degli standard”.
“Il nostro Paese non può avere diversi standard nell’accoglienza. La Convenzione Onu sui diritti dei bambini e degli adolescenti parla chiaro: se la famiglia non garantisce al bambino una crescita sana ed equilibrata, lo Stato deve intervenire dando risposte unitarie”, ha affermato Vicenzo Spadafora, garante per l’infanzia e l’adolescenza.
Il primo passo per definire una rete di accoglienza omogenea è quello di individuare le diverse tipologie di struttura. In Italia, infatti, manca una indicazione nazionale e ogni regione adotta definizioni proprie. “La conseguenza è che per ogni comunità vengono adottati approcci diversi”, afferma Valter Martini che ha curato il rapporto. Sono state così individuati tre diversi tipi di comunità: quelle familiari o case famiglia, caratterizzate dalla presenza stabile di adulti residenti; quelle socio-sanitarie, dove lavorano operatori che hanno competenze sanitarie oltre che sociali; quelle educative, dove vi sono educatori che non abitano nella struttura. “Il panorama nazionale è ricco di offerte ma ad esempio le comunità di accoglienza mista non trovano cittadinanza in tutte le regioni. Dobbiamo valorizzare le specifiche identità e rispondere ai bisogni sociali e sanitari che sono in costante aumento”.
Un secondo aspetto emerso dai colloqui con le associazioni e con i minori è il contesto ambientale. “I ragazzi devono vivere in una casa con cucina, salotto e spazi ricreativi per garantire contesti di normalità e di integrazione sociale”, afferma Liviana Marelli, rappresentante del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). “La comunità deve essere casa anche per la famiglia d’origine che rappresenta una parte importante della vita del minore”.
Ogni bambino poi deve seguire un progetto educativo individualizzato (pei). “Occorre evitare una risposta istituzionalizzata che non tenga conto dei bisogni specifici dei ragazzi”, spiega Marelli. Gli operatori devono dare risposte anche per quanto riguarda il futuro del minore: creare un piano “dopo la comunità” che preveda un rientro in famiglia, dove possibile, l’adozione, l’affido o l’avvio all’autonomia. Per Maria Francesca Pricoco, presidente del Tribunale per i minorenni di Catania: “Bisogna tenere conto delle divere esigenze ma trattare tutti allo stesso modo. Questo è il compito della giustizia che deve garantire il principio di uguaglianza”
Ma nessuno comunità può farcela da sola. Il contesto sociale secondo Spadafora è fondamentale per i minori: “Occorre creare una rete composta dalla famiglia, dalla scuola, dalla parrocchia, dai centri educativi che aiuti i ragazzi al di fuori delle quattro mura della comunità”. Il documento presentato prevede che i servizi sociali territoriali dispongano di una anagrafe ragionata delle strutture, una sorta di banca dati con tutte le informazioni utili per indirizzare il minore nella comunità giusta.
Per quanto riguarda poi il rapporto con gli operatori, i ragazzi intervistati non hanno dubbi: “il loro lavoro non è come quello dell’operaio. Deve tenerci al suo posto, deve tenerci ai ragazzi. Deve dirti dove sbagli e non ti deve tradire mai anche se lo mandi a quel paese”, racconta un minore che ha partecipato al gruppo di lavoro. Il documento stabilisce dei criteri di selezione precisi per assumere chi lavora con i ragazzi. “E’ importante che facciano una formazione continua ma che sia anche differenziata a seconda dei loro compiti. Gli educatori sono per i minori dei punti di riferimento e non possono cambiare improvvisamente, devono garantire continuità”, afferma Antonietta Bellisari, della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.
Si sottolinea anche l’importanza di accogliere sotto lo stesso tetto ragazzi italiani e stranieri, mentre i minori disabili non possono essere ospitati solo in strutture sanitarie: dove è possibile va privilegiata l’accoglienza in comunità familiari. Per le strutture che non rispettano gli standard e che non mettono al primo posto il benessere del minore, la soluzione è solo una: la chiusura. “E’ nostro compito investire energie e risorse nei progetti che funzionano”, afferma Marelli.
Spadafora ha affermato come il documento redatto dalla Consulta delle Associazioni rappresenta un risultato storico: “Abbiamo chiesto la costituzione di un tavolo tecnico per definire i protocolli operativi e i codici di comportamento a cui le realtà di accoglienza devono attenersi. Ora dobbiamo fare in modo che questo diventi norma in tutte le regioni”. Anche secondo Raffaele Tangorra, dirigente del Ministero del Lavoro delle Politiche Sociali, “questo è solo un inizio. Ci impegneremo affinché queste linee guida siano patrimonio di tutti”. (gabriella lanza)