Immuni, untori, sempre invasori. Così si è parlato di migranti durante la pandemia
Gli Stati Popolari a Roma
ROMA - All’inizio dell’emergenza coronavirus in Italia un messaggio rimbalzava nelle chat di whattsapp: “Fate una verifica e vedrete che in tutti gli ospedali, non c'è un extracomunitario di qualsiasi età positivo o ricoverato per Cov19!!!!!!!!! Come è possibile!?!?!? Solo gli italiani....allora...meditare gente”. L’ipotesi era che i migranti fossero immuni al virus, forse perché gli era stato somministrato il vaccino contro la tubercolosi. Ma in diverse chat si lasciava intendere che il virus fosse tutto un grande complotto per portare a termine la sostituzione etnica degli italiani con gli stranieri, per questo gli immigrati non erano a rischio. Poi con l’emergere dei primi focolai nei centri di accoglienza da immuni i migranti sono diventati (o meglio tornati) a essere identificati come “untori”. Il pericolo era che fossero loro i propagatori del contagio o che lo portassero in Italia dai loro paesi di origine. A consolidare quest’idea ha contribuito anche la scelta del governo italiano di isolare i migranti appena arrivati sulle navi quarantena: hotspot galleggianti dove gli stranieri devono passare almeno 15 giorni dopo lo sbarco prima di poter essere accolti nel nostro paese. Una soluzione che secondo diversi esperti è la rappresentazione plastica del “pericolo che viene dal mare”.
In generale il 2020 è stato caratterizzato da una comunicazione altalenante e spesso schizofrenica sul tema migratorio. Le persone sbarcate nel nostro paese sono state considerate prima immuni poi untori, sempre comunque invasori o perlomeno ospiti non graditi. Come rileva l’ultimo rapporto di Carta di Roma a differenza degli anni passati per la prima volta scompare dai titoli dei principali quotidiani e tg l’equazione che vede la migrazione direttamente proporzionale all'aumento della criminalità. A dominare la scena mediatica da marzo ad agosto è stato un altro “nemico”, reale e di certo più pericoloso: il coronavirus. Ma con l’arrivo dell’estate e i numeri in calo dei contagi gli sbarchi sono tornati sulle prime pagine dei giornali e sui social network. Con un leitmotiv che è quasi sempre lo stesso: “gli italiani chiusi in casa e i migranti liberi di sbarcare”.
Lo straniero come capro espiatorio
“Sia il tema della migrazione che il tema dell’odio sono stati toccati dalla pandemia: Il frame migrazione come criminalità è stato molto ridimensionato, ma è aumentata l’invisibilità delle persone - sottolinea Federico Faloppa, linguista, ricercatore e coordinatore della Rete per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio -. All’inizio dell’emergenza sanitaria lo straniero, l’altro, è stato visto come capro espiatorio della diffusione del virus: l’odio è stato rivolto soprattutto nei confronti della comunità sinofona, ritenuta responsabile della pandemia. Si sono diffuse anche tesi complottiste: gli immigrati risultavano immuni perché il virus era stato inoculato per indebolire la popolazione europea. La novità è stata anche l’uso di WhatsApp per far passare queste idee: quando un messaggio arriva in una chat pensiamo che sia più credibile, perché è come se arrivasse da un amico, qualcuno di cui ci si fida”. In estate, poi, come sottolineato anche dalla mappa dell’intolleranza realizzata da Vox - Osservatorio italiano sui diritti i picchi di odio e intolleranza tornano a concentrarsi sugli stranieri. “C’è stato il caso Lampedusa, si è parlato di accoglienza in Calabria, si è ricominciato a colpire anche di chi li accoglie, i volontari e le ong - aggiunge Falopa - Nei mesi estivi quando pandemia ha lasciato le prime pagine l’immigrazione è tornato un tema notiziabile, a livello sia nazionale che locale”.
Un'inchiesta realizzata da Occhio ai media, un gruppo di giovani attivisti che si occupa del monitoraggio del razzismo nella stampa italiana, ha evidenziato come nella cronaca della città di Ferrara si sia parlato spesso di stranieri anche nei mesi del picco dell’emergenza sanitaria. “Ai tempi di una pandemia nessuno è straniero” è il titolo dell’indagine. “Tra marzo e maggio sono stati dedicati diversi articoli ai migranti, soprattutto in relazione al Gad, un quartiere di Ferrara considerato difficile - aggiunge Faloppa -. Quello che emerge è che i fermi e i controlli polizia per Covid si mescolavano a i fermi e controlli di attività illecite degli stranieri. Nel racconto tutto finiva in un gran calderone: si mescolavano misure di espulsione e altri elementi che non c'entravano nulla con la pandemia. Questo ha prodotto un’ambiguità di fondo. Inoltre l’inchiesta ha rivelato come ci sia stata anche una profilazione di tipo etnico nei fermi di polizia”. Un altro dei temi centrali nel racconto dell’immigrazione nell’ultimo anno è stato quello delle “fughe” dai centri di accoglienza: “c’è stato molto sensazionalismo, il problema esisteva, ma sappiamo anche che c’erano altre criticità: molti migranti e senza dimora non hanno accesso ai servizi sanitari, non hanno un medico curante. La difficoltà di accesso alla medicina di base e le lacune nella prevenzione sono state, invece, raccontate molto poco. Inoltre, ci sono persone che vivono in strutture fatiscenti e rifugi di fortuna, dove l’isolamento è impossibile. Questo monitoraggio è mancato ed è un problema di sanità pubblica, che andava indagato meglio”. Come dimostrato da uno studio dell’Istituto superiore di sanità infatti, il mancato accesso alle cure per gli stranieri ha comportato un ritardo nelle diagnosi e un numero elevato di casi gravi tra la popolazione immigrata.
La burocrazia che esclude e il ruolo delle reti dal basso
Non solo, ma la pandemia ha fatto emergere con forza anche l’evidente gap burocratico nelle informazioni dirette alle persone di origine straniera e gli ostacoli alla loro piena realizzazione professionale. Un caso particolare è stato quello dei medici e degli operatori sanitari esclusi dai bandi per il servizio sanitario pubblico, nel pieno dell’emergenza. Come denunciato da Asgi, Amsi ed altre organizzazioni nonostante nel nostro paese ci siano 77mila professionisti sanitari formati alcune regioni hanno pubblicato bandi in cui si richiedeva la cittadinanza italiana o la carta di soggiorno, tenendo fuori i possessori di permesso di soggiorno. Impedimenti e ostacoli ci sono stati anche dal punto di vista comunicativo, soprattutto per le informazioni essenziali relative al Covid. “In questi mesi sono stati prodotti diversi decreti e dpcm, ma anche delibere e ordinanze locali, a volte in conflitto tra loro. Spesso a livello locale si è puntato sul prima gli italiani, per l’accesso ai servizi o come nel caso dei buoni spesa, veri atti di discriminazione - continua Faloppa -. Per fortuna il tema è venuto a galla. Molte persone straniere sono impiegate nell’assistenza domiciliare, si occupano di anziani, bambini, persone malate. Ma per gli amministratori diventano invisibili. Questo vale anche per gli occupati in agricoltura.Il paradosso è che nonostante fossero molto esposte al rischio ricevevano poche informazioni, la lingua utilizzata è stata sempre l’italiano. Abbiamo dovuto attendere le organizzazioni umanitarie, come il Naga o altri, perché i testi dei dpcm ma anche le autorizzazioni, fossero tradotti in diverse lingue, non solo quelle veicolari - spiega ancora Faloppa -. Il discrimine non sono solo le politiche razziste che escludono, ma anche la scarsa consapevolezza e informazione. Come ha rilevato già il linguista Michele Cortelazzo la leggibilità dei testi era già molto bassa per un italiano, intorno al 47%, figurarsi per chi non parla bene la nostra lingua. C’era la necessità di tradurre le informazioni in maniera semplice per tutti”. In questo una spinta positiva, dal basso, è arrivata dalla società civile, che si è mossa e ha attivato le risorse del volontariato. “Le persone hanno iniziato a tradurre le documentazioni in diverse lingue - conclude il linguista -. I network informali sul territorio hanno supplito così alle mancanze della pubblica amministrazione. Se queste pratiche verranno mantenute anche in futuro l'impatto sarà in positivo. Ma sulla disinformazione a livello linguistico c’è ancora molto da fare”.