Mondiali antirazzisti: le storie dei migranti, tra integrazione e discriminazione
- CASTELFRANCO EMILIA (Modena) - “Qui sto bene, ma a volte faccio ancora fatica a sentirmi accettato”. Hamza è pakistano, classe 1995, vive in Italia da quasi due anni, a Santa Maria Capua Vetere (Caserta). In patria aveva appena finito il college e voleva continuare gli studi di medicina, ma nel 2015 ha dovuto abbandonare la scuola e, almeno per ora, il sogno di diventare medico in Pakistan per trasferirsi in Italia a cercare una vita migliore e più sicura. “Ne ho parlato con i miei amici e siamo partiti”, racconta in italiano con accento campano. Arrivato a Caserta, è stato prima accolto dalla Caritas, poi è rientrato nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Grazie allo Sprar, ha potuto ottenere il diploma di terza media e cominciare a lavorare come barista. Poi, l’incontro con Maurizio Affuso, che lo ha coinvolto negli Rfc Lions Ska, squadra di calcio della terza categoria campana che si propone di andare contro le logiche economiche del calcio moderno per farne uno strumento di integrazione e incontro fra culture. È insieme a loro che Hamza è arrivato ai Mondiali Antirazzisti di Bosco Albergati (Castelfranco Emilia, Modena), come tantissimi altri migranti e richiedenti asilo che si incontrano in una tre giorni di sport, dibattiti e incontri contro la discriminazione, la violenza e il razzismo.
Una sensazione di indefinitezza, a metà strada tra la piena integrazione in un contesto multietnico e il sospetto e la diffidenza negli occhi della gente, causati dal colore della pelle, da una lingua diversa, dagli stereotipi e dai pregiudizi: questo è quello che emerge dalle storie di molti migranti, rifugiati e richiedenti asilo che partecipano ai Mondiali di Castelfranco Emilia. “Non so ancora se rimanere o meno in Italia. Vorrei tornare dove sono nato, ma la situazione in Gambia è ancora troppo difficile. Devo aspettare”. Muhammad, 20 anni, è arrivato in Italia poco più di 2 anni fa, ancora minorenne, e oggi ha ottenuto lo status di rifugiato. “In Gambia ero un calciatore, giocavo in una squadra dell’esercito”, questo l’inizio del suo racconto. Muhammad però non ha potuto intraprendere una carriera sportiva di successo: un suo superiore, che lo aveva reclutato nella squadra e lo aveva accolto sotto la sua protezione, era stato fatto arrestare dal presidente Yahya Jammeh. Anche Muhammad era sulla lista nera. “Il mio superiore si è rifiutato di consegnarmi e sono riuscito a scappare dal Gambia”. Ora gioca per i Liberi Nantes, squadra con sede a Roma i cui giocatori sono tutti rifugiati e richiedenti asilo provenienti dall’Africa subsahariana. “Abbiamo preso e modificato un passo dell’Eneide (“rari nantes in gurgite vasto”, ndr) – dichiara il responsabile della squadra Antonio Marcello – anche l’Italia, secondo il mito, è nata dai profughi in fuga da una guerra, quella di Troia”.
Non è un profugo né un richiedente asilo, Sami, però le difficoltà di sentirsi italiano ma di non esserlo sulla carta le vive tutti i giorni. 23 anni, nativo di Gujrat, città pakistana al confine con l’India, nel 2003 ha raggiunto con la madre e il fratello suo padre, che abitava da 4 anni in provincia di Bologna. “Tra circa un mese sarò cittadino italiano, ma ho fatto la richiesta 3 anni fa. Se l’avessi avuta prima e più facilmente mi avrebbe aiutato molto”. Sami, infatti, tra il 2010 e il 2011 era rimasto bloccato in Pakistan per un anno, perché, dopo la morte del padre, non aveva più avuto a disposizione il permesso di soggiorno per tornare in Italia: “Con me avevo solo la ricevuta della richiesta del documento, ma all’aeroporto non era stata accettata. Così sono dovuto rimanere in Pakistan, perdendo un anno di scuola in Italia”.
Nella stessa squadra di Sami, gli Special Galapagos, che unisce alcuni giocatori normodotati e altri con patologie psichiche, gioca Alex, venticinquenne del Togo. La sua fortuna è di essere rientrato in un corso organizzato dall’ambasciata italiana nel suo Paese d’origine, che permetteva di iscriversi a un’università italiana alla fine delle scuole superiori. Superato il corso, Alex si è potuto così trasferire a Bologna, dove studia scienze della formazione, mentre la sua famiglia è rimasta in Togo. La mancanza di un contesto in cui persone provenienti da continenti diversi convivono stabilmente, questa è stata la difficoltà più grande per Alex. “In Italia purtroppo non è ancora come in Francia – dice – ho molti amici tra gli immigrati di seconda generazione, che sono nati qui e si sentono italiani, ma sulla carta non lo sono e non si sentono ancora accettati”.
In dissonanza, nonostante la sua sia una testimonianza drammatica dei conflitti etnici ancora in corso in Africa e dell’emergenza umanitaria che colpisce il Mediterraneo, è il racconto di Moussa. Nato nel 1997 in Senegal, al confine con la Guinea-Bissau, ha vissuto sulla sua pelle la discriminazione per essere figlio di padre senegalese e madre guineana: “Ho passato la mia infanzia in Guinea-Bissau ma abbiamo dovuto trasferirci in Senegal, perché là era pericoloso rimanere”. Dopo la morte di suo padre, a causa di una mina, Moussa ha attraversato l’Africa e ha tentato la via della Libia. Trovare lavoro era però impresa estremamente difficile e restare nel Paese era fuori discussione. “Ho pensato di tornare da mia madre e da mio fratello in Senegal: impossibile”. Moussa allora ha cercato un’imbarcazione che lo portasse in Italia, dove è arrivato a bordo di una nave di una ong. “Dopo mezza giornata di controlli sanitari in Sicilia sono stato accolto dalla Caritas di Caserta e da un anno e mezzo sono rientrato nel programma Sprar”. Come Hamza, suo compagno negli Rfc Lions Ska, ha appena finito le scuole medie e spera di trovare un lavoro per poter aiutare la sua famiglia in Africa. “Tornare in Senegal? Assolutamente no, spero di far venire in Italia mia madre e mio fratello un giorno. La mia casa è qui, non ho mai avuto nessun problema con gli italiani”. (Simone Lippi Bruni)