Nel 2012 cittadinanza a 65 mila stranieri (+16%). “Ius sanguinis anacronistico”
ROMA - Sono aumentate nel 2012 le persone che hanno ottenuto la cittadinanza italiana: le acquisizioni sono state 65.383, il 16 per cento in più rispetto all’anno precedente. A diventare italiani sono stati soprattutto i cittadini marocchini con il 21,5 per cento delle acquisizioni, seguiti dalla comunità albanese (16,3 per cento), dagli egiziani (4,7 per cento) e dai tunisini (4,1 per cento). Dal punto di vista della distribuzione sul territorio nazionale, le acquisizioni di cittadinanza riguardano principalmente il Nord-Est e il Nord-Ovest, mentre il Sud e le Isole, dove prevalgono le acquisizioni per matrimonio, hanno numeri molto contenuti. A livello provinciale, come nel passato, spiccano Milano, Roma, Torino, Brescia e Treviso. Lo dice il rapporto Immigrazione 2013 di Caritas- Migrantes, presentato oggi a Roma.
Nello studio si evidenzia che “le procedure per l’acquisto della cittadinanza italiana rimangono ancorate ad un sistema anacronistico, legato al principio dello ius sanguinis (acquisto della cittadinanza per discendenza) ormai superato dalla maggior parte dei paesi di immigrazione. È opportuno, invece – sottolinea Caritas - ampliare i casi di acquisizione della cittadinanza ‘iure soli’ (diritto di suolo), prevedendo innanzitutto una diminuzione degli anni di residenza legale e continuativa richiesti ad un minore nato in Italia che voglia acquisire la cittadinanza (oggi fissata a 18 anni). Stesse considerazioni valgono per l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione a seguito di lunga residenza che attualmente è fissata in 10 anni, un periodo eccessivamente lungo che in molti casi scoraggia lo straniero dall’intraprendere questa strada precludendogli la possibilità di godere di quei diritti spesso necessari per un corretto e definitivo inserimento. L’ampliamento dei casi e dei modi di acquisto della cittadinanza iure soli, quindi, risulterebbe funzionale anche al superamento del ricorso strumentale al matrimonio con cittadini italiani per poter acquisire la cittadinanza, soprattutto da parte delle donne straniere”.
Pluralismo religioso. Per quanto riguarda la religione degli stranieri in Italia il rapporto sottolinea che stia cambiando la geografia socio-religiosa dell’Italia: “una novità rilevante in un Paese che, per ragioni storiche e per motivi culturali, continua a rappresentarsi ancora come se fosse solo cattolico”. “La classe politica si mostra attenta a non alterare i rapporti con la Chiesa cattolica o, più strumentalmente, a considerare il riconoscimento giuridico della diversità religiosa di alcune comunità come un pericoloso cedimento dell’identità collettiva degli italiani – sottolinea Caritas -. A questa incertezza rispetto al riconoscimento della diversità religiosa fa da contraltare l’opera di settori della società che si mostrano più aperti al cambiamento. Nella Chiesa cattolica, ad esempio, la rete del volontariato, singoli parroci e la Caritas svolgono da molto tempo non solo la funzione di ammortizzatori sociali del disagio che molti immigrati vivono concretamente, ma anche di mediatori interculturali e, di fatto, anche interreligiosi fra fedi diverse”.
Secondo il rapporto le circa 200 diverse nazionalità degli immigrati in Italia costituiscono un indizio certo che “la differenza di religione abita la porta accanto”. “Se un viaggiatore percorresse dal Nord al Sud e dall’Ovest all’Est l’Italia, non scorgerebbe certamente a prima vista né templi sikh, né moschee, così come non saprebbe riconoscere chiese ortodosse e tanto meno mandir hindu – si legge - Il problema, del resto, con queste nuove chiese è che è molto difficile localizzarle, essendo spesso nate e vivendo in condizioni molto precarie dal punto di vista logistico e operativo. Anche i luoghi di culto dell’islam sono sparsi in tutto il territorio italiano, con una densità maggiore laddove lo sviluppo delle piccole e medie aziende, dei tanti distretti industriali del Nord e dell’Italia centrale, ha drenato dai paesi a maggioranza musulmana molti immigrati. In genere tali luoghi sono prevalentemente sale di preghiere – musallayat – a volte ospitate in situazioni precarie e poco confortevoli, mentre di moschee in senso stretto ce ne sono solo sei”.
La presenza degli ortodossi appare molto più stabile e definita, non solo perché una delle chiese ha ottenuto da poco – nel dicembre 2012 – il riconoscimento da parte dello Stato italiano, ma anche perché il loro inserimento è stato facilitato, almeno per la chiesa romena, moldava e ucraina, dai Vescovi della chiesa cattolica. In molte diocesi, infatti, i vescovi hanno autorizzato il riutilizzo di piccole chiese ormai prive di parroci o cappelle, anch’esse da qualche tempo in disuso, collocate in aree marginali rispetto al tessuto urbano, offrendole alla gestione di preti ortodossi. Ciò spiega la relativa rapida crescita delle parrocchie, che oggi raggiungono quota 355. “Se passiamo ai 36 templi sikh (gurudwara), la loro irregolare distribuzione sul territorio dipende dai segmenti di mercato del lavoro che gli immigrati provenienti dal Panjab sono andati gradualmente a occupare –continua il rapporto - Una legge sulla libertà religiosa è necessaria nella misura in cui andrebbe a rispondere ad un mutamento della società che è sotto gli occhi di tutti: nel giro di qualche decennio le nuove generazioni di cittadini a identità multipla non saranno più naturaliter cattolici ma sikh, musulmani, ortodossi, buddisti, hindu, cristiani neo-pentecostali e carismatici e, dunque, chiederanno il pieno riconoscimento della loro diversità religiosa”. (ec)