Nel Sud Sudan la guerra per le risorse sta affamando la popolazione
TORINO - Il Sud Sudan? “Un puzzle che non si riesce a ricomporre”. A parlare è Mara Nuzzi, desk officer Sud Sudan per il Comitato di collaborazione medica (Ccm), ong presente in Sudan fin dal 1983. “Il Paese avrebbe le potenzialità per l’autonomia alimentare, ha l’acqua, il petrolio e altri giacimenti minerari, ma è uno dei più poveri al mondo e l’esistenza quotidiana della sua popolazione è una battaglia immane”. Sei milioni di abitanti su 11 totali sono in emergenza umanitaria, 1,8 milioni sono sfollati interni e con -la diffusione del conflitto c’è stato un aumento del numero di rifugiati: oltre 1 milione di sud sudanesi è stato accolto in Uganda, in gran parte si tratta di donne e bambini che riferiscono di uccisioni, violenze e stupri. Altrettanti si trovano in Sudan, Etiopia, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo. “Una situazione sconfortante che peggiorerà nei prossimi mesi, a meno che non si trovi una soluzione politica”, dice Nuzzi. In Sud Sudan, infatti, c’è quella che viene chiamata “man-made emergency”, un’emergenza creata dall’uomo e non dipendente da fattori esterni. “Il governo è incapace di sfruttare le possibilità economiche del Paese e il conflitto politico tra il presidente Salva Kiir e l’ex vicepresidente Riek Machar non dà tregua alla popolazione”.
La storia del Paese è travagliata. L’indipendenza è arrivata nel 2011 con il voto favorevole alla secessione dal Sudan, dopo 20 anni di guerra civile e più di 2 milioni di morti. Tra le cause dell’attuale situazione c’è il contrasto tra il presidente del Sud Sudan Salva Kiir (che in precedenza era stato a capo dei ribelli che si opponevano al dittatore sudanese Al-Bashir), e l’ormai ex vicepresidente Riek Machar, ora in esilio in Sudafrica: nel 2013 Kiir accusa Machar di aver organizzato un colpo di stato alle sue spalle e lo caccia dal Paese. Da qui la guerra civile, la tregua del luglio 2015 e il riaccendersi del conflitto nell’estate del 2016. Il fatto che Kiir e Machar appartengano alle due etnie più numerose del Paese, rispettivamente Dinka e Nuer, porta molti a parlare di matrice etnica del conflitto. Per Nuzzi però è “fuorviante” puntare sui motivi etnici. “Dinka e Nuer sono le due etnie principali, ma ce ne sono quasi 60 in tutto il Sud Sudan – dice – La matrice etnica è stata sfruttata a dovere dai contendenti, ma la vera questione è la gestione delle risorse”. Risorse che potrebbero essere la fonte del cambiamento per il Paese ma al momento sono solo la causa della guerra. E a cui sono interessati anche gli Stati limitrofi. “Perché diventino fonte di cambiamento bisogna risolvere questa impasse politica – dice Nuzzi – La comunità internazionale ha provato a bloccare la querelle tra i due contendenti ma senza risultato”.
Il Paese è suddiviso in contee, il cui numero dal 2016 a oggi è passato da 10 a 28 e poi 32. “Una divisione su base etnica che potrebbe facilitare la rielezione di Kiir (nel 2018 sono previste le elezioni) perché è più facile fare accordi bilaterali con municipalità più piccole con poche o singole etnie”. Ma questa suddivisione ha creato un problema amministrativo e ha ingolfato la macchina burocratica. “Anche per noi il lavoro si è complicato perché se prima ci relazionavamo con un dipartimento oggi ce ne sono 10”. Nel Paese inoltre non è semplice muoversi, anche per gli operatori umanitari: “Negli ultimi 3 anni ne sono stati uccisi 89. Inoltre, c’è stata una forte stretta sulla libertà di espressione”. Il Ccm è presente in due zone del Paese: Greater Tonj nel nord ovest e Turalei a nord. “Ci troviamo in una zona relativamente tranquilla, a etnia unica Dinka, e in cui i conflitti interni sono limitati, in genere ai furti di bestiame – spiega Nuzzi – Anche qui ci sono problemi di malnutrizione grave ma la zona non è interessata dalla carestia, dichiarata invece da diverse contee. Da giugno però siamo stati raggiunti dall’epidemia di colera che si è diffusa nel Paese a partire dal 2016”. Un’emergenza non minoritaria e con un trattamento non complicato che però “in una situazione di estrema indigenza e in condizioni igienico-sanitarie drammatiche è difficile da contenere”. Inoltre, il fatto che la popolazione sia nomade, “complica le cose”.
Nel Paese il Ccm gestisce una rete di strutture sanitarie di diverso livello: 3 ospedali, 21 centri di salute e un dispensario. Si occupa di trattamento delle patologie comuni, di assistere le donne in gravidanza durante il parto, di campagne di vaccinazione sul territorio, di prevenzione dell’Hiv e di contrasto alla malnutrizione, oltre che di educazione sanitaria e formazione del personale sanitario. Sono 35 le persone presenti nel Paese per il Ccm e quasi 600 i locali (in gran parte sud sudanesi) che lavorano per la ong, in collaborazione con il ministero della Sanità e il dipartimento di salute di contea. “Lavoriamo grazie a un fondo multidonor finanziato da Unione europea, UsAid, cooperazione inglese, svedese e svizzera che garantisce un approccio sostenibile. Dal 2016 a oggi però le risorse sono calate del 50%, una situazione che non promette bene”. Il motivo? “In questi 6 anni di indipendenza ci sono stati miglioramenti ma non tanti quanti ci si aspettava e la comunità internazionale è stanca di dare risorse se non ci sono risultati e punta a investire in Paesi che garantiscono un livello politico più tranquillo – conclude – Meno fondi però significa meno assistenza per una popolazione che non ha niente. Ci sentiamo impotenti di fronte a una situazione politica che è la causa di tutti i mali del Sud Sudan”. (lp)