Non autosufficienza, la vita difficile dei caregiver stranieri
BOLOGNA – Si stima che in Italia siano oltre 3 milioni e 300mila i caregiver familiari, ovvero quelle persone che, volontariamente e in modo gratuito, vanno in aiuto di un proprio parente o di una persona amica non in grado di prendersi cura di sé perché malata o disabile. Un ruolo non sempre facile: spesso capita che il caregiver incontri varie difficoltà, dall’isolamento sociale e familiare al peggioramento delle condizioni di salute psico-fisica; dall’impoverimento economico alla difficoltà di conciliazione. E quando il caregiver è una persona straniera? In quel caso, è molto probabile che a quelle difficoltà comuni se ne sommino altre, connesse a barriere culturali e linguistiche e a una ridotta rete sociale sul territorio. E anche cultura di origine, condizioni e motivi dell’esperienza migratoria e dell’accoglienza in Italia hanno il loro peso. Licia Boccaletti e Loredana Ligabue, ricercatrici sociali della cooperativa carpigiana Anziani e non solo, hanno portato avanti il progetto ‘Da te a me’, con l’obiettivo di approfondire il tema dei caregiver familiari di origine straniera e di capire come anche la formazione dei mediatori culturali debba evolversi. ‘Da te a me’ sarà presentata oggi nel corso della VII edizione del ‘Forum della non autosufficienza (e dell’autonomia possibile)’ in corso a Bologna.
Una scelta dettata anche dai numeri: la popolazione immigrata cresce, e si conta che nei 4 comuni presi in esame dalla ricerca (Campogalliano, Carpi, Novi di Modena e Soliera, per un totale di circa 100mila abitanti), il 30 per cento degli alunni con disabilità gravi che necessitano dell’assistenza da parte dei servizi territoriali è straniero. Il dato degli anziani disabili di origine straniera non può ancora avere rilevanza statistica, ma un fenomeno sta emergendo: “Le assistenti familiari arrivate dalla fine degli anni Novanta a oggi dall’Europa dell’est cominciano ad avere un’età avanzata, e spesso sono prive di un contesto familiare, di un qualsiasi supporto”, spiega Ligabue. E se Francia, Inghilterra e Olanda sul tema cure familiari per anziani immigrati sono già molto avanti, in Italia il discorso è decisamente arretrato.
La ricerca (durata 4 mesi) ha coinvolto una decina di caregiver di origine straniera, di diverse nazionalità – Ucraina, Tunisia, Moldavia, Pakistan, Nigeria, Guinea – chiamate ad assistere familiari con patologie le più svariate, operatori del servizio sanitario – neuropsichiatri infantili, logopedisti, fisioterapisti, psicologi, ma anche operatori sociali del territorio – e anche 6 insegnanti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori: “Abbiamo cercato un campione il più rappresentativo possibile per capire i problemi vissuti da entrambe le parti in causa”, spiega Boccaletti, coordinatrice del progetto.
Cosa è emerso? La rete sociale delle famiglie di origine straniera è corta e stretta: in questo modo, la responsabilità della cura di parenti disabili ricade ancora di più sulla famiglia ristretta. Inoltre, c’è una scarsa conoscenza delle possibilità sul territorio. Si percepisce tanta solitudine, e tanta nostalgia per gli affetti lontani, come racconta una donna nigeriana che lavora come donna delle pulizie in un ospedale, con una figlia disabile: “Io non ne posso più di questa situazione: mi chiamano in continuazione dalla scuola per andare a prendere mia figlia, ma io non posso, devo lavorare. La scuola non capisce che sono sola: se mi occupassi di più della mia bambina non potrei mantenere la famiglia”. Ci sono problemi linguistici (soprattutto nel caso di donne pakistane e magrebine, meno per quelle dell’est) e anche questioni di genere. Molto, infatti, dipende da come sono considerate le donne nella famiglia: “Capita spesso che siano gli uomini che si rivolgono ai servizi sociali – o scolastici – anche se poi l’attività di cura è svolta dalle donne della famiglia. Questo naturalmente non facilita le cose: purtroppo, almeno all’inizio, c’è anche poca fiducia”, ammette Boccaletti. E ancora, altre difficoltà nascono circa la diagnosi: come vengono capite le diagnosi e le cure? “Non dimentichiamo che in alcune culture i disabili psichici sono ancora stigmatizzati. Questa problematicità è stata evidenziata dagli operatori sanitari: per questo stiamo pensando di ampliare gli ambiti di competenza dei mediatori, che si rendono indispensabili anche in queste situazioni”. E fa l’esempio di una famiglia coinvolta nella ricerca che, al momento dell’iscrizione a scuola di alcuni figli era accompagnata anche dal figlio disabile: solo in quel momento ha scoperto che in Italia anche lui può andare a scuola.
Dalla ricerca sono nate alcune idee, raccolte sotto il nome di ‘Raccomandazioni’: si ragiona su come ‘utilizzare’ i mediatori culturali per ragionare con i familiari; mentre la guida per i caregiver è stata tradotta nelle principali lingue delle comunità sul territorio, esattamente come sono stati tradotti i piani educativi individualizzati. “Grazie alla ricerca abbiamo formato su questi temi una cinquantina di operatori sociali e una ventina di mediatori: quelle sono risorse umane che restano sul territorio – continua Boccaletti –. Ora ci piacerebbe dare il via a un progetto spin off, lavorando con le comunità straniere sul territorio per renderle punti chiave delle nostre attività”. (Ambra Notari)