Nuovi "spazi di parole" in carcere, a scuola, con i migranti: la sfida della giustizia riparativa
PALERMO - La giustizia riparativa espressa nella sua capacità di rimettere al centro la persona nel suo bisogno di parola e di ascolto in una relazione autentica. A partire da questo assunto si è svolto questa mattina nella chiesa di San Mattia ai Crociferi a Palermo il convegno su "vittime e comunità riparatoria" promosso dall'associazione Spondè. L'incontro di oggi segna anche una tappa importante dell'avvio del progetto "Kintsugi: tra rottura e integrità", finalizzato a migliorare la condizione e la vita di persone in stato di disagio sociale. Ad introdurre il tema con la sua lezione magistrale è stato Tim Chapman, presidente dell'Europeen Forum on Restorative Justice della facoltà di scienze sociali di Belfast.
“Siamo solo all'inizio di una strada che porta benefici alla persona e a tutta la comunità, ma i mediatori sono ancora pochi. La giustizia riparativa, essendo un paradigma che riguarda tutte le dimensioni del conflitto - sottolinea Maria Pia Giuffrida presidente dell'associazione Spondè - tende a ricucire i rapporti rotti. Si può declinare sia a livello di singole persone che di comunità. Oggi il punto fondamentale da cui partire è quello di creare maggiori spazi di parola. La gente ha bisogno di parlare senza ricevere un'attenzione soltanto burocratica e formale. Una volta un detenuto mi disse che con la giustizia riparativa aveva scoperto non soltanto il diritto di parlare, ma anche quello di essere ascoltato. Occorre quindi favorire degli spazi di comunicazione in cui si può dire quello che si sente nella verità storica ed emozionale di ciascuno sapendo con certezza di essere accolti. Soltanto così rimettiamo al centro tutti i percorsi che partono dalla valorizzazione dei significati più profondi della persona".
"In carcere, per esempio, la riparazione attraverso il delicato ruolo dei mediatori penali è la scommessa del futuro. La persona deve essere accompagnata per il suo reinserimento sociale, accrescendo il lavoro sulla sua responsabilità rispetto al fatto commesso. La pena non esaurisce il problema del reato. Questo ha rotto degli equilibri per cui c'è una dimensione relazionale che va riscoperta. I mediatori penali sono purtroppo ancora pochi e sicuramente il loro incremento potrebbe dare una svolta significativa a livello sociale. Il tempo della pena non è un tempo di attesa di uscire dal carcere ma un tempo che può essere utile per riflettere sul danno fatto agli altri, per acquistare una capacità pro-attiva della propria vita".
"Anche nella scuola – conclude Giuffrida - è importantissimo portare un messaggio sulla mediazione inter pares espressa nella capacità che si dà ai ragazzi di fare esprimere i loro vissuti. I ragazzi con l'aiuto di docenti formati e mediatori imparano così che la mediazione possibile è nella loro vita quotidiana".
“Promuovere una cultura della comunità riparatoria – aggiunge Anna Ponente, direttrice del centro diaconale valdese La Noce - significa porre al centro dell'attenzione la capacità di prendersi cura dei legami sociali e considerare quali valori fondamentali la qualità e l'intensità di essi. L'esperienza della riparazione ha enormi potenzialità poiché svincola l'individuo dal senso del danno irreparabile, dando speranza alle generazioni successive, credendo fermamente nella possibilità di affrontare i segni lasciati nel mondo interno dalle esperienze di rottura relazionale e con la convinzione che permane sempre il desiderio di instaurare rapporti all'interno dei quali si possa diventare destinatari di stima da parte degli altri. In un periodo storico di profonde mutazioni economiche e sociali, una comunità riparativa e relazionale deve raccogliere la sfida a contrastare la crisi dei legami sociali e promuovere il vero cambiamento".
Una nota particolare è stata espressa dalla direttrice a proposito del tema dell'immigrazione, tenendo conto delle diverse esperienze di accoglienza del centro operate a favore dei i minori stranieri e di alcune famiglie siriane con i ponti umanitari. "Non possiamo trascurare chi oggi nel Mediterraneo si continua a morire - dice Anna Ponente -. In un clima che promuove la cultura della paura che si sposa ad una politica di chiusura, accettare di promuovere l'allargamento degli orizzonti tradizionali attraverso l'accoglienza e il superamento di ogni autoreferenzialità è fare cultura. Non possiamo non soffermarci sulla responsabilità storica di trovarci davanti ad un trauma sociale massivo. Dobbiamo lottare contro il processo di disumanizzazione mettendo al contempo in atto tutte le modalità riparative e di sostegno del singolo e della comunità". (set)