Palermo, dopo lo sbarco gli immigrati passano la notte in chiesa
La chiesa San Carlo di Palermo |
PALERMO – Quarantotto migranti, quasi tutti eritrei tra uomini e donne, arrivati ieri al porto di Palermo, hanno trascorso la notte in alcune brandine, allestite per l’occasione all’interno della chiesa San Carlo dalla Caritas. Da oggi, i migranti verranno tutti alloggiati non più in chiesa ma all’interno di una struttura appositamente allestita, il Centro San Carlo e Santa Rosalia. A loro, quasi tutti eritrei, fatta eccezione per quattro siriani, si aggiungono le 16 donne migranti già presenti al centro. A tutti loro è stata offerta la prima colazione, la possibilità di lavarsi e di avere degli abiti e delle scarpe comode. Sono ore frenetiche quelle in cui sono impegnati, in questo momento, i volontari e gli operatori del centro San Carlo e Santa Rosalia che cercano di rispondere con tutti gli strumenti che hanno a disposizione ai bisogni di queste persone. 800 sono stati i panini forniti ieri al porto ai migranti e agli operatori.
Considerata la situazione di emergenza, il direttore della Caritas di Palermo don Sergio Mattaliano ha fatto richiesta in prefettura per estendere l’accoglienza Cas all’interno del centro Santa Rosalia da 40 a 80 posti.
don Sergio, Caritas di Palermo |
Tra coloro che hanno voluto parlare con un inglese stentato e con l’aiuto del mediatore arabo Anovar ci sono il giovane eritreo M. e la connazionale A., tutti e due con la speranza di raggiungere presto, rispettivamente, l’Inghilterra e la Norvegia. M., il più grande di quattro fratelli, nato a Dekemhara vicino ad Asmara, dice di avere 28 anni e racconta di avere trascorso 5 mesi in Libia prima di imbarcarsi per l’Italia. Di questi mesi, ben quattro li ha trascorsi in una sorta di prigione libica in condizioni pessime.
“Per uscire dalla prigione ho dovuto pagare 1200 dollari – dice-. Non mi sembra vero che sono arrivato in Italia dove però non voglio rimanere perché voglio raggiungere alcuni miei parenti ed amici a Londra”. Il giovane sottolinea che nel suo Paese non si può vivere in condizioni umane e dignitose. “Nel mio paese non si può lavorare – dice -. Ho scelto di affrontare questo lungo viaggio perché, in Eritrea, avviare le procedure legali per partire è impossibile se non hai conoscenze e tanti soldi. Nel mio paese c’è molta corruzione e poi ti costringono a fare un servizio militare molto duro e lungo che nessuno di noi vuole fare. Lo stipendio medio per vivere è di 10 dollari al mese”.
“Mio padre è un soldato ma io ho scelto di non fare la sua strada – racconta ancora -. Ho scelto di andare via per non pesare su di loro e per avere un futuro diverso. Voglio studiare perché mi sono fermato negli studi all’età di 12 anni. Mio padre mi ha detto che per andare avanti devo solo studiare e sono partito anche per questo per studiare e lavorare e diventare come voi. Tutto questo spero di realizzarlo a Londra”.
Il giovane si sofferma anche sulla situazione disastrosa che c’è in Libia. “In questo momento ci sono migliaia di persone divise in gruppi pronte a partire – dice -. La cifra che si paga è molto alta e dietro ci sono molte organizzazioni. Anche se ho visto i morti in tv dei naufragi la mia decisione è stata più forte delle immagini. In Libia si subisce di tutto. I libici sono molto cattivi, ci offendono e ci maltrattano oltre a ricattarci economicamente. Qualcuno dei miei connazionali avrebbe voluto ritornare nel suo Paese ma, una volta che sei lì, non hai più scampo perché entri in un giro di violenza e corruzione che poi forse ti porterà finalmente in Italia”.
A parlare è anche un’altra giovane eritrea A. di 21 anni che subito si è data da fare all’interno del centro facendo oggi la barba e i capelli agli uomini. "Sono stata un mese in Libia – racconta -. A Tripoli, diversamente da altri, ho vissuto ammassata in una piccola casa, dividendo le spese con altri. Il mio viaggio non è stato facile perché sono stata accampata nel deserto per 15 giorni. I libici non si comportano bene con noi ci usano soltanto per avere soldi e a loro non interessa della nostra vita e del nostro futuro”.
Anche lei si sente soltanto di passaggio in Italia perché sogna di andare in Norvegia. “Stare in Italia è bello – continua - ma sappiamo che non c’è lavoro e siccome dobbiamo mantenere le nostre famiglie nel nostro paese abbiamo bisogno di lavorare subito. Ringraziamo il vostro Paese per come ci sta accogliendo ma il futuro lo vediamo da un’altra parte dell’Europa”. (set)