Ponte Mammolo, se questo è abitare...
La baraccopoli di Ponte Mammolo a Roma
ROMA – Pareti di vecchie ante di armadi inchiodate una sull’altra, tettoie di nylon e plastica, baracche tenute insieme da reti di letti arrugginite recuperate dai cassonetti. Contro il cielo i cavi degli allacci abusivi alla corrente elettrica, qua e là parabole e sugli alberi i segni dell’ultimo incendio. Un paio di donne scambiano due parole mentre aspettano il proprio turno per riempire le taniche d’acqua all’unico rubinetto appeso a un tubo nero di plastica che spunta dagli alberi dietro le baracche. Poco distante un ragazzo si fa la barba, davanti a uno specchio inchiodato a vecchi pannelli di legno, mentre due gatti fanno le fusa su una vecchia cassa usata come tavolino in quello che d’estate potrebbe essere un giardino. Redattore sociale ha visitato una delle tante favelas di Roma, a Ponte Mammolo, per scoprire le condizioni di vita delle 80 persone che vi abitano, a due passi dalla stazione della metropolitana, dietro il capolinea degli autobus. Baracche di fortuna, separate dagli sguardi degli automobilisti da un doppio giro di alberi tutto intorno, ma sotto il costante sguardo curioso e indispettito degli inquilini dei piani alti dei palazzoni che si ergono intorno. Sono soprattutto uomini, ma non mancano donne con bambini e interi nuclei familiari. Due le nazionalità principali: eritrei, una cinquantina di persone, ed ucraini, circa 30. D’estate convivono con le zanzare e d’inverno fanno i conti con il freddo. Qui non c’è riscaldamento né elettricità, salvo qualche allaccio abusivo. Si rimedia con le candele e con qualche coperta in più per il freddo. I bagni sono due per tutto il campo, la doccia si fa con i secchi dell’acqua presa da una fontana vicina.
Zerit è un rifugiato politico. È fuggito dall’Eritrea dopo aver abbandonato l’esercito in guerra con l’Etiopia. In Italia è arrivato nel 2003. Qui vive da due anni. Ha i documenti in regola, ma da due anni non riesce a trovare un lavoro stabile e quindi a permettersi una stanza nella capitale degli sfratti. Lavorava come facchino negli alberghi per una cooperativa di servizi, ha perso il lavoro, adesso sopravvive con piccoli commerci nelle bancarelle di amici. Come lui molti si appoggiano qui. Un signore rientra con il bambino piccolo, appena tornato da scuola. Non gli va di parlare. Ne hanno abbastanza dei giornalisti. Le baracche furono visitate anche dal vescovo ausiliare della diocesi di Roma, Ernesto Mandara, nel 2005. Ma niente è cambiato. Alcuni vivono qui da anni. C’è chi ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari, chi è rifugiato e chi invece è senza nessun documento, specie tra gli ucraini. Altri invece sono appena arrivati, come Goitom, che è sbarcato a Lampedusa ad agosto e che qui ha trovato un tetto per quanto precario.
“Il sistema d’accoglienza dei rifugiati in Italia ha duemila posti, ma nel 2006 i rifugiati erano più di diecimila – dice Mussiè Zerai (Agenzia Habeshia) -. Vi siete mai chiesti dove finiscono gli altri ottomila? Eccoli!”. Anche a Goitom è successo. Dopo lo sbarco a Lampedusa è stato trasferito in un centro di identificazione e da lì, una volta ottenuto il permesso per motivi umanitari ha preso il primo treno per Roma ed