Povertà, il Piano nazionale resta lontano: risorse slittate al 2018
ROMA - Il premier Renzi ne aveva parlato già ad agosto, il ministro Poletti l’aveva praticamente dato per certo a settembre: 500 milioni di euro destinati alla lotta contro la povertà, da aggiungere a quel miliardo di euro già stanziato un anno fa. Un miliardo e mezzo che doveva costituire, nel 2017, la base per la partenza del Reddito d’inclusione (Rei), quella misura nazionale di contrasto alla povertà assoluta che in Italia manca da sempre (unico paese europeo, insieme alla Grecia, a non essersi finora dotato di una misura universalistica destinata a chi si trova in povertà assoluta). Cinquecento milioni che dovevano esserci e che invece, a metà ottobre, si scopre essere spariti, volatilizzati, sciolti come neve al sole nel breve volgere di qualche giorno, quelli che hanno preceduto la chiusura della legge di stabilità, approvata sabato dal Consiglio dei ministri.
Certo, l'etichetta "povertà" non è sparita completamento dal testo di legge annunciato dal governo, ma la decisione di mantenere quella voce facendo slittare la disponibilità delle nuove risorse dal 2017 al 2018 rischia di avere solo il pregio di salvare le apparenze. La sostanza, purtroppo, è un’altra ed è una “frenata” netta e per certi versi inattesa nell’azione di contrasto alla povertà. Qualcosa che non ci voleva, specialmente perché il cammino per la nascita del Rei è a buon punto in Parlamento, dove al Senato si sta discutendo la legge delega – già approvata alla Camera – che affida al governo la costruzione di un vero e proprio Piano nazionale di lotta alla povertà.
Per aiutare tutti i poveri assoluti in Italia servirebbero – secondo i calcoli effettuati sia dal coordinatore scientifico dell’Alleanza contro la povertà, Cristiano Gori, sia dall'Istituto per la ricerca sociale di Emanuele Ranci Ortigosa – circa 7 miliardi di euro l’anno. Una cifra considerevole, che è possibile raggiungere solamente gradualmente, aumentando di anno in anno la quota destinata al Fondo dedicato. E un aumento, peraltro, che sia degno di questo nome: almeno un miliardo e mezzo di euro in più all’anno, in modo da arrivare nel giro di quattro anni (un arco di tempo non brevissimo ma neppure infinito), a dare un aiuto a tutti gli indigenti. Perché di questo si tratta: aiutare quei 4,6 milioni di persone (dato 2015) che sono in povertà assoluta. Che non sono quelli che hanno problemi a trovare i soldi per la settimana bianca o per l’ultimo smartphone, ma quelli che hanno difficoltà a vivere una vita dignitosa, a partire dai fondamentali (cibo, casa, vestiti). Di fronte a questa necessità impellente, la scelta del governo nella legge di bilancio è stata quella di ignorare la povertà, prevedendo per il 2017 un aumento del fondo pari a zero e spostando al 2018 la cifra di 500 milioni che vista la situazione rappresenta solo una piccola parte di ciò di cui ci sarebbe bisogno.
In questi anni gli interventi del governo sul tema povertà sono stati accompagnati da una sorta di retorica dell’interventismo renziano: è innegabile del resto che nessun altro governo della storia ha investito così tanto su una misura di intervento per i poveri assoluti. Dopo una partenza lenta, nel 2016 la somma è disposizione è stata di 600 milioni, nel 2017 sarà di un miliardo (cifra già decisa nella legge di stabilità dello scorso anno), nel 2018 sarà di un miliardo e mezzo. Eppure, col passare del tempo, l'argomento che gli altri governi hanno fatto poco o niente è sempre meno forte. Il motivo principale di ciò è la consapevolezza sempre più estesa che il governo Renzi deve fare di più perché mai nella storia recente la situazione è stata così catastrofica. Nel 2007 le persone in povertà assoluta erano 1,8 milioni (il 3,1% del totale), nel 2015 sono arrivate a 4,6 milioni (il 7,6%). Più del doppio. Agire ora - nella considerazione di quanti vedono la grave situazione del paese - non è una concessione, ma una necessità. Una necessità a cui bisogna dare risposte immediate ora, non dilazionate nel giro di due, tre, quattro anni.
Al di là dei 500 milioni in più o in meno, i messaggi negativi che arrivano con la scelta del governo si racchiudono in due considerazioni principali. La prima è che il Piano strutturale di contrasto alla povertà nei fatti viene fatto scivolare di un altro anno: il che equivale a dire che per il momento ci si accontenta di politiche di breve periodo, che magari aiuteranno qualcuno ma non sono all’altezza della sfida che la situazione di diffusione della povertà assoluta richiede. In secondo luogo, la scomparsa dalla legge di stabilità dei 500 milioni aggiuntivi nel 2017 indica che il governo, dovendo dare una risposta alle tante sollecitazioni giunte da più parti, ha scelto coscientemente di “sacrificare” i poveri. In una manovra da 26,5 miliardi, si sono trovati i fondi per raggiungere numerose fasce della società, ma non per alimentare il fondo per i poveri assoluti. Il che significa che la lotta alla povertà assoluta non è una priorità. O che è sì una priorità, ma è meno prioritaria di tante altre priorità.
Il risultato comunque, per chi sottolinea in particolare tutti questi aspetti, non cambia: il governo Renzi poteva entrare nella storia di questo paese per aver realizzato il primo Piano pluriennale (e, a regime, universalistico) di contrasto alla povertà. A parole ancora no, ma nei fatti ha scelto di non farlo, rinviando la sua partenza almeno al 2018 (che, peraltro, sarà anche l’anno delle elezioni politiche: e tutti sanno quanto sia difficile in questo paese che in campagna elettorale arrivi qualcosa di strutturale). A pagare il conto delle scelte e delle non scelte compiute saranno ovviamente i milioni di italiani in povertà assoluta. Ai quali bisognerà spiegare che è ancora troppo presto per sperare in un sostegno nella lotta alla povertà.