Profughi: dopo il permesso di soggiorno, la strada
BOLOGNA – Un permesso di soggiorno in tasca e un destino incerto fuori dalla porta dei centri d’accoglienza per migranti. Non sanno dove andare e come muoversi, parlano poco o nulla l’italiano e sono spaventati da quello che li aspetta. Sono i pensieri che ogni giorno affollano la mente dei profughi presenti nelle diverse strutture a Bologna e provincia. “Una volta che mi avranno dato il permesso dovrò lasciare la casa dove mi trovo, ma non so dove andare – racconta Dembele, uno dei ragazzi del Mali fuggito dalla guerra in corso nel suo Paese – Io voglio cercare un lavoro e vivere qui solo che il permesso non mi basta se non ho anche il documento d’identità”. Molti dei suoi connazionali, fuggiti come lui, sono stati mandati a Bologna, e una volta ottenuto il permesso sono dovuti uscire dalle strutture di accoglienza e hanno iniziato a vagare in cerca di lavoro. “Non è facile muoversi in un posto che non conosci – dice Sako, che ha da poco ottenuto il permesso – molte delle persone che erano con me sono andate in giro in cerca di un impiego, ma non hanno trovato nulla. Alla fine ti rivolgi ad associazioni e volontari per avere una mano. Non è vita questa”.
In base alla legge, infatti, chi ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari o sussidiari ha 20 giorni di tempo per lasciare la struttura di prima accoglienza. Cosa ben diversa dall’assegnazione dello status di rifugiato. In quel caso si accede al progetto Sprar, sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che consiste in un percorso, finanziato attraverso fondi ministeriali, che prevede un accompagnamento del beneficiario verso forme di autonomia lavorativa e abitativa. “Noi cerchiamo di dare a chi arriva nei diversi centri tutte le informazioni e l’assistenza legale di cui hanno bisogno – spiega Mirta Soverini, responsabile della cooperativa LaiMomo che gestisce l’accoglienza, insieme al consorzio Arcolaio, delle strutture di Bologna e provincia – Li aiutiamo a preparare la pratica per la richiesta di protezione e ad affrontare l’audizione in commissione. Gli diamo anche consigli pratici su come muoversi al di fuori della struttura e a chi rivolgersi in caso di necessità. Più di questo non riusciamo a fare anche perché la legge stabilisce che devono lasciare il centro dopo 20 giorni che hanno ritirato il permesso”.
Ma che cosa succede a quelli che lasciano i centri? Dire che sono abbandonati a loro stessi senza che nessuno se ne curi è forse eccessivo, ma di certo non hanno grandi prospettive. Con qualche indicazione fornitagli all’uscita del centro si rivolgono ad associazioni o parrocchie per avere un aiuto e cercare di capire come muoversi. Molti di loro non hanno nessuno e quando provano a cercare lavoro si scontrano con la difficoltà non solo della lingua ma anche della mancanza di documenti adeguati. La legge consente di avere un lavoro con il solo permesso di soggiorno, ma spesso le agenzie per l’impiego o chi offre lavoro richiede anche altri documenti di cui non sono quasi mai in possesso. “Non mi piace stare senza far niente – dice Cisse, un ragazzo in attesa del permesso – voglio lavorare, mi piacerebbe fare il netturbino. Solo che ho paura ad avere il permesso perché una volta ottenuto dovrò lasciare la casa dove sono e non ho un posto dove andare. A questo punto meglio non averlo”.
Una situazione drammatica a cui il Comune sa di non poter porre rimedio vista la difficoltà a reperire risorse per attivare percorsi successivi ai passaggi dei centri di seconda accoglienza. “Capisco le difficoltà ma noi non possiamo fare nulla di più di ciò che stiamo già facendo – dice Amelia Frascaroli assessore alle politiche sociali del Comune di Bologna – Non si riescono ad attivare dei percorsi d’integrazione perché non abbiamo le risorse economiche e le strutture per farlo. Adesso stiamo cercando di trovare un po’ di soldi da dare come buonuscita per aiutare le persone a muoversi all’inizio”.
Intanto l’associazione 3 febbraio ha attivato una raccolta di firme per chiedere al Comune di Bologna di convocare un incontro tra istituzioni locali, associazioni, volontari e parrocchie che sul territorio aiutano i migranti. “Chiediamo che le istituzioni convochino un tavolo con tutti i soggetti che prestano assistenza – dice Michele Giammario dell’associazione 3 febbraio – in questo modo cerchiamo di capire quali sono le risorse che ognuno di noi può mettere in campo. Dovremmo lavorare tutti insieme per affrontare questa emergenza”. (dino collazzo)