Proroghe, udienze, proteste: Hassen "prigioniero" nel Cie di Ponte Galeria
ROMA - Proroghe continue e immotivate, alternate a ricoveri, notti insonni e a terapie farmacologiche bruscamente interrotte. Negli ultimi due mesi e mezzo la vita di Hassen Ghannoudi, 22enne tunisino, è andata lentamente alla deriva, incagliandosi fra leggi inapplicate e un’inquietante mancanza di attenzione. Teatro della vicenda è il centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma, uno dei sei Cie attivi al momento in Italia. E’ qui che Ghannoudi, trovato senza documenti di soggiorno durante un normale controllo di polizia, viene portato lo scorso 8 agosto. L’identificazione è di fatto inutile, visto che il giovane ha già trascorso due anni in un carcere italiano. Rimane dunque da effettuare un’eventuale espulsione, che - a norma di legge - deve avvenire entro 30 giorni. Se così non è, la persona va rimessa in libertà. Un dispositivo introdotto nell’ottobre 2014 proprio per evitare la “seconda reclusione” di quanti, avendo già trascorso almeno tre mesi nelle carceri, dovrebbero essere stati identificati al loro interno. Una norma che, spiegano gli avvocati di Ghannoudi, “è chiara, inequivocabile, ma è stata completamente disattesa, con effetti gravi sulla salute di una persona già stremata”.
- Dalla Tunisia al Cie. Hassen Ghannoudi arriva in Italia via mare nel 2011, mescolato alle migliaia di tunisini che approfittano della “rivoluzione dei gelsomini” e della cacciata del dittatore Ben Ali per lasciarsi alle spalle un paese chiuso e illiberale. Appena maggiorenne, ottiene un permesso di soggiorno per motivi umanitari ma, intercettato da piccoli criminali, è coinvolto in alcuni reati e costretto a due anni di detenzione. Chiuse le porte del carcere, nel dicembre 2014, si impegna per una nuova vita, riuscendo ad affittare una stanza a Roma e incontrando una donna italiana, che oggi lo aspetta fuori dal Cie. Un percorso difficile, che Ghannoudi affronta spesso con fatica. Il trattenimento a Ponte Galeria non fa bene e conduce al peggioramento di un quadro clinico che, secondo gli psicologi del centro, presenta “vulnerabilità caratteriali, rese più gravi dal contesto ambientale”. Nonostante questo, e nonostante la chiarezza della legge, ad ogni udienza il trattenimento è prorogato.
Le proroghe continue. 11 agosto, 4 e 22 settembre e infine 21 ottobre. Un walzer di date, per altrettante udienze di convalida del fermo, e di speranze, per Ghannoudi, di poter riprendere una vita fuori dal Cie. Speranze disattese che, dopo il 22 settembre, si trasformano in frustrazione e, come indicato da relazioni mediche, in un vissuto psicologico di estrema sofferenza. Non servono studi specialistici per interpretare una norma chiara: chi è stato in carcere per almeno 90 giorni, non può essere trattenuto nel Cie per più di 30. Un articolo, il 14 comma 5 del Testo Unico sull’Immigrazione, che è stato applicato in diversi casi, anche nei confronti di chi, come Ghannoudi, non era stato portato direttamente dal carcere al Cie. Eppure ad ogni udienza il giudice di pace decide di confermare il trattenimento per altri 30, 15 e in ultimo 10 giorni. “L’ultima udienza - spiega Alessandro Crasta, uno dei legali -, è avvenuta alla presenza di tre agenti di polizia in assetto anti-sommossa, come se la persona potesse scappare, ma la cosa più grave è stata proprio la proroga, motivata paradossalmente dal fatto che non c’erano motivi per opporsi alla decisione presa nella precedente udienza, motivi che sono invece evidenti”.
Autolesionismo e proteste. Accanto al limite dei 30 giorni, l’avvocato cita un’altra norma, contenuta nella direttiva europea 115/2008 sui rimpatri, che prevede il ricorso alla detenzione amministrativa solo nel caso in cui ci sia “una ragionevole prospettiva di allontanamento dal territorio nazionale”. Una prospettiva che, aggiunge Crasta, “in questo caso non c’è, se è vero che da 76 giorni la persona sta attendendo un’identificazione che non avviene”. Una violazione palese, a cui Ghannoudi reagisce salendo sul tetto del Cie, dove rimane per due giorni alla fine di settembre, per poi interrompere la terapia farmacologica disposta da servizio medico e adottando in generale comportamenti a rischio - per sei giorni riferisce di non aver dormito per il timore di essere prelevato e rimpatriato - che culminano, nella mattina del 22 ottobre, in una nuova protesta sul tetto, chiusa poi in serata grazie alla mediazione dell’avvocato e di alcuni operatori del centro. Senza genitori, la madre è morta da poco mentre con il padre non ha contatti, e con un fratello in coma da una settimana in seguito a un incidente, il giovane ha minacciato più volte di gettarsi dalla struttura. Un rischio concreto, che sembra in linea con le indicazioni degli psicologi del Cie, che segnalavano già a settembre la necessità di una “continuità assistenziale in strutture sanitarie adeguate”. Chiaramente dopo un rilascio che ancora sembra lontano, mentre pare confermata la richiesta di rimpatrio in tempi rapidi inoltrata al consolato tunisino nei giorni scorsi e che, pare, avrebbe dovuto realizzarsi proprio ieri pomeriggio. “Se il rimpatrio fosse compiuto”, sostiene però l’avvocato, “ci troveremmo di fronte a una delle peggiori violazioni dei diritti registrate ultimamente nei Cie”.