Protocollo contro il caporalato, che fine ha fatto? Dopo un anno quasi tutto fermo
ROMA - Doveva essere il punto di svolta per una “lotta ancora più dura al caporalato”, per dirla con le parole dell’allora ministro dell’Interno Alfano, ma a distanza di un anno sembra non aver ancora centrato l’obiettivo. Il Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, firmato al Viminale il 27 maggio del 2016, è ancora quasi del tutto inattuato. Eppure il documento era stato presentato alla stampa come un pilastro che, insieme alla legge contro il caporalato approvata lo scorso ottobre, avrebbe dovuto essere l’arma vincente contro il fenomeno. A sottoscrivere il testo, con il governo Renzi, il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ma anche l'Ispettorato nazionale del lavoro, le regioni Basilicata, Calabria, Campania, Piemonte, Puglia e Sicilia, Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil, le associazioni di categoria Coldiretti, Confagricoltura, Copagri e Cia, Caritas, Libera e Croce rossa italiana.
Il protocollo, però, non ha ancora prodotto le azioni concrete auspicate. A denunciarlo sono proprio alcune delle realtà che hanno sottoscritto il documento e che da quel 27 maggio ad oggi hanno atteso invano di essere convocate per costituire, come prevede l’articolo 6 del testo, il Gruppo di coordinamento e controllo che avrebbe dovuto avere il compito di vigilare sull’attuazione del protocollo stesso. Ad oggi, però, non c’è stata alcuna convocazione e sebbene manchino ormai pochi mesi al termine della sua validità, non c’è neanche l’ombra di un bilancio. Nell’articolo 7, infatti, si specifica che la sua validità è fissata fino al 31 dicembre 2017, con la possibilità di una proroga, “previa verifica dei risultati prodotti”. Ma è proprio questa la nota dolente. “Il protocollo non è mai partito realmente - spiega Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana -. Tutto quello che è stato inserito nel protocollo non ha mai avuto luogo. Sappiamo che sui territori qualcuno si è mosso nell’ambito dei fondi del Pon legalità per fare interventi, ma sono ancora pochi”.
Il protocollo è ambizioso: raccoglie gran parte dei suggerimenti delle organizzazioni firmatarie. Anche per questo motivo, il testo è stato accolto immediatamente con favore. Ora che è arrivato il tempo di fare bilanci, però, i sorrisi con cui il testo è stato salutato non brillano più. Il documento prevede un insieme di iniziative che vanno dai servizi di trasporto gratuito per i lavoratori agricoli, ai presidi medico-sanitari mobili, dall’attivazione di servizi di informazione e tutela legale alla distribuzione gratuita di acqua potabile e o viveri di prima necessità, dall’utilizzo dei beni confiscati alle mafie per creare centri di servizio e assistenza sociosanitaria alla sperimentazione di sportelli di informazione per l’incontro tra domanda e offerta di servizi abitativi. Ad oggi, oltre all’avvio di tavoli in alcune prefetture e la firma di un nuovo protocollo territoriale come accaduto a Foggia, in Basilicata e a Reggio Calabria, nelle regioni interessate si è fatto poco. “Il protocollo non ha funzionato perché non c’è stata nessuna indicazione centrale per la sua implementazione - spiega Forti della Caritas -. Siamo dispiaciuti: due ministri su tre sono ancora al loro posto e dopo questa firma, che sembrava essere un punto di svolta o almeno una leva per iniziare un ragionamento, non si è fatto nulla”. A sperare in risultati decisamente diversi, anche le Acli, come spiega Francesco Sderlenga, vice presidente nazionale di Acli Terra. “Ci aspettavamo di più rispetto a quello che è stato fatto, ma sapevamo che i tempi sarebbero stati lunghi - spiega Sderlenga -. In alcune regioni è stato fatto di più, in altre di meno. In alcune realtà, invece, non si è partiti proprio. Siamo agli inizi, ma si poteva fare molto di più. Rispetto alle aspettative è stato fatto pochissimo”.
Bilancio preoccupante quello di Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil. “E’ assolutamente negativo - spiega il segretario nazionale -, anche se qua e là si è mosso qualcosa. In alcune prefetture, come Foggia, Lecce e Ragusa, c’è un tavolo di confronto ancora attivo, ma non riescono a fare passi in avanti. Sembrava che tutto dovesse muoversi con maggiore celerità, ma non è andata così”. A Foggia, invece, qualcosa si sta muovendo. Dopo la firma del protocollo nazionale, il 22 novembre 2016 la prefettura di Capitanata ha sottoscritto un protocollo con Regione Puglia, Asl e Caritas diocesana. “In questi giorni - racconta Mininni - è stata convocata una riunione per affrontare la situazione e si sta tentando di mettere in campo lo strumento che consente di attuare le azioni previste, e cioè il Fami”. Il Fondo asilo migrazione e integrazione, infatti, nel protocollo nazionale è indicato come il luogo da cui attingere le risorse per avviare le iniziative previste. Anche in questo caso, però, qualcosa non ha funzionato. “I fondi previsti dal protocollo non sono stati mai messi in campo - chiarisce Mininni -. Ad oggi, se una delle organizzazioni coinvolte vuole fare un’azione di accoglienza, lo deve fare con risorse proprie. Non è stato emesso nemmeno un bando e la colpa è del Viminale che attraverso le prefetture non si è mosso. L’unica che sta muovendo i primi passi è quella di Foggia. Le altre dormono”. A risentirne, anche i progetti di integrazione previsti dal protocollo: dalle ludoteche ai corsi di lingua italiana, ciclofficina, da pizzaiolo e altro ancora. “Nessuna di queste iniziative è mai partita - spiega Mininni -. Sono rimaste belle parole scritte sulla carta. Lo stato non fa accoglienza e neanche integrazione, non la vuole fare. A Foggia avrebbero potuto prevedere soluzioni alternative di alloggio dopo lo sgombero del gran ghetto di Rignano, invece di mettere in campo i due o tre centri di raccolta della regione che erano insufficienti. Non esiste più Rignano, ma gli altri otto ghetti si sono riempiti. Quello di Borgo Mezzanone scoppia già adesso. E ora, da Rosarno, i lavoratori si sposteranno verso Foggia per la raccolta del pomodoro”.
A nulla è servita la richiesta di aggiornamenti da parte di alcune delle organizzazioni firmatarie, soprattutto in merito all’attivazione del Gruppo di coordinamento e controllo che avrebbe dovuto essere la cabina di regia nazionale del protocollo. “Il coordinamento non è mai partito - spiega Forti della Caritas -. Sono passati dodici mesi e non siamo mai stati convocati dai ministeri. Questo silenzio è inspiegabile”. Stesso stupore anche da parte di Acli Terra. “Seguiamo le varie realtà a livello territoriale - racconta Sderlenga -, ma a livello ministeriale non siamo stati più convocati”. Anche a Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie, non hanno avuto più notizie del coordinamento dal giorno della firma al Viminale. “Sarebbe importante che a distanza di un anno i ministeri attivino questo tavolo di controllo - spiega Davide Pati, vice presidente di Libera -. E’ importante che ci sia una verifica ad un anno di distanza. Il protocollo è valido fino a fine dicembre 2017, per cui è importante che questa verifica venga fatta prima del 31 dicembre”. Un silenzio che ha ammutolito di colpo i fruttuosi colloqui che hanno portato allo stesso protocollo, spiega Mininni. “Fino a prima della firma c’è stato un ascolto vero. In diverse riunioni sono state ascoltate le nostre proposte e sono state recepite nel protocollo - spiega Mininni -. I presupposti erano interessanti. Da dopo la firma non abbiamo più avuto nessuna riunione a livello nazionale. Il tavolo di coordinamento non si è mai insediato. Era prevista anche una relazione a dicembre dello scorso anno da inviare al Parlamento e ai ministeri competenti. Non è stata mai fatta”.
Di chi è la responsabilità del mancato insediamento del Gruppo di coordinamento e controllo? Il segretario nazionale della Flai Cgil non ha dubbi. “E’ colpa del ministero del Lavoro e non degli altri ministeri - spiega Mininni -. Il protocollo prevede che il tavolo si insedi presso il ministero del Lavoro”. A nulla sono serviti i richiami inviati ai ministeri dalle diverse organizzazioni coinvolte. La prima del 16 novembre del 2016 a firma di Caritas Italiana, Flai Cgil e Libera e indirizzata al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con la richiesta di un riscontro sull’attivazione del Gruppo di coordinamento. La seconda a firma delle tre sigle sindacali coinvolte (Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil) del 15 marzo 2017 inviata ai tre ministeri firmatari in cui si denuncia l’immobilità del protocollo e si chiede con urgenza di verificare quali ostacoli blocchino l’attuazione del testo. Ad entrambe le lettere, nessuna risposta. Stessa sorte per l’interrogazione parlamentare sul tema, datata 1 marzo 2017, con prima firmataria la senatrice Maria Grazia Gatti (Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista), nonché relatrice al Senato della legge sul caporalato.
Eppure non è detta l’ultima parola e potrebbe essere proprio la Capitanata il primo territorio dove poter sperimentare appieno quanto previsto dal protocollo nazionale. “Le proposte contenute nel documento pensiamo siano ancora valide - spiega Pati di Libera -, per questo bisogna dare continuità a quello che è stato scritto nel protocollo, con maggiore forza e incisività. Sia in termini di raccordo istituzionale, sia in termini di risorse a disposizione. Il lavoro è stato avviato. Per essere coerenti al protocollo bisogna fare certamente di più sulla strada positiva già tracciata soprattutto ora che siamo alla vigilia di una stagione estiva che porterà tanti lavoratori”. Anche per Mininni, Foggia può diventare un modello da seguire. “Quando c’è la volontà politica di voler fare una cosa, le cose si possono fare - spiega Mininni -. Noi stiamo lavorando per avere la disponibilità dei soggetti interessati a cominciare a sperimentare la rete del lavoro agricolo di qualità e i nodi territoriali in alcuni territori, vogliamo cominciare a vincere la scommessa sui territori, iniziando da Foggia”.(Giovanni Augello)