Protocollo contro il caporalato, ecco dove si tenta di applicarlo
ROMA - Cura, legalità e uscita dal ghetto. Sono questi i tre fronti su cui intervenire messi in evidenza sul frontespizio del protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura sottoscritto il 27 maggio 2016 al Viminale da tre ministeri (Lavoro, Agricoltura e Interni), sindacati e associazioni. Ad un anno da quella firma, però, manca ancora un quadro nazionale su quanto fatto. Mai convocato anche il Gruppo di coordinamento e controllo che avrebbe dovuto fare un primo bilancio già nel dicembre scorso (mai presentato) e seguire l’attuazione del documento. Sui territori, però, oltre ai controlli attivati, tardano ad arrivare risultati. Sono poche le realtà che si sono mosse per mettere in pratica il protocollo. Tra queste ci sono la provincia di Foggia, quella di Reggio Calabria e la regione Basilicata. Tre realtà che hanno risposto al protocollo nazionale, in tempi diversi, con un proprio protocollo territoriale che recepisce le indicazioni date a livello nazionale. Un iter lungo e non senza difficoltà.
La provincia di Foggia è stata la prima a muoversi in questo senso, riuscendo a firmare un protocollo che ricalca quanto stabilito a livello nazionale già l’11 agosto 2016. Tra i firmatari, gli stessi del protocollo nazionale, anche la Caritas. “Subito dopo la firma del protocollo nazionale, è stato prezioso il ruolo del prefetto di Foggia, Maria Tirone, che ci ha fatto passare l’estate in prefettura a fare riunioni mettendo attorno al tavolo tutti gli attori firmatari del protocollo - spiega don Francesco Catalano, direttore della Caritas diocesana di Foggia-Bovino -. Il protocollo è un punto di inizio, non uno di arrivo, per contrastare un fenomeno radicato su questo territorio”. Dopo la firma del documento, a fine novembre, è stata sottoscritta anche una convenzione per l’attivazione di interventi di prevenzione e primo soccorso. Un tema su cui le Caritas diocesane sono impegnate da tempo col Progetto presidio. “In Puglia sono cinque le diocesi che hanno questo progetto - spiega Catalano -. Abbiamo degli operatori che ogni giorno girano per le campagne, incontrano i migranti sul lavoro, fornendo informazioni sui loro diritti e continuiamo a invogliare alla denuncia laddove ci siano irregolarità o situazioni di grave sfruttamento. Il nostro compito è anche quello di segnalare quelle che sono le notizie di reato che veniamo a conoscere durante le nostre attività nei ghetti di Capitanata”.
La prossima riunione in Prefettura a Foggia ci sarà il 29 maggio. Nel frattempo, qualcosa si è mosso, spiega don Francesco Catalano. “Dei risultati ci sono stati - aggiunge -. E’ aumentato il numero dei controlli sul territorio. Questo ha permesso anche un aumento del numero di contratti di lavoro che si sono avuti lo scorso anno. Naturalmente la situazione è ancora critica per la presenza dei ghetti”. Lo sgombero del gran ghetto di Rignano, racconta don Francesco Catalano, non ha cambiato lo scenario. “I ghetti non sono il problema in sé - spiega -, ma la metastasi di un male che è l’irregolarità nei rapporti di lavoro dove il caporale diventa l’unica agenzia di intermediazione efficace per trovare lavoro. Ci sono i controlli, sono aumentati i contratti, ma ci sono ancora tante disparità. Basti pensare che nonostante lo sgombero del gran ghetto attualmente ci sono circa 300 persone che si sono già posizionate con delle roulotte attorno al terreno sotto sequestro. Questa, però, è una profezia che avevamo annunciato perché senza una offerta di accoglienza dignitosa, arrivano nuove baracche. Il migrante accetta quelle condizioni di vita e di lavoro indecenti perché sa che lì può rispondere alla richiesta di manodopera”. Il lavoro fatto in questi anni e anche in questi mesi, tuttavia, ha prodotto anche una maggiore consapevolezza tra gli stessi braccianti. “Molti migranti sanno molto bene quali sono i loro diritti - aggiunge Catalano -, ma c’è sempre la paura di denunciare perché si rischia di non lavorare più”.
Nella piana di Gioia Tauro, invece, la Prefettura di Reggio Calabria ha tentato di gettare le basi di un intervento comune già prima del protocollo nazionale. I primi a mettere nero su bianco delle iniziative di contrasto, nel febbraio 2016, sono stati la provincia di Reggio Calabria, i comuni di Rosarno e San Ferdinando, la Croce rossa, la Caritas diocesana, Emergency e Medu, spiega Celeste Logiacco segretaria della Flai Cgil di Gioia Tauro. “Per noi sarebbe stato importante essere a quel tavolo per il lavoro che facciamo, ma in questa fase non siamo stati coinvolti. - racconta Logiacco - In quella sede si è sottolineata la necessità di un intervento immediato rispetto alle criticità dal punto di vista igienico e sanitario, ma anche sul fronte integrazione attraverso politiche di sostegno socioabitativo”. Il 12 dicembre 2016 arriva anche il protocollo territoriale che recepisce quello nazionale. Anche in questo caso gli attori sono gli stessi di quelli del protocollo sperimentale e stavolta ci sono anche sindacati. Tra le azioni previste, l’impegno della Regione nell’avviare iniziative per “l’assorbimento nel tessuto abitativo locale” dei lavoratori stagionali, anche “mediante la sperimentazione di bandi per la concessione di contributi”, mentre alla provincia di Reggio Calabria il compito di implementare i servizi nei Centri per l’impiego.
Ad oggi, però, secondo la Flai Cgil è stato fatto poco o nulla, anche rispetto agli accordi del febbraio 2016. L’unico appuntamento nell’agenda della prefettura, al momento, sembra essere la chiusura della tendopoli di Rosarno e l’apertura di una nuova tendopoli, ma la soluzione individuata preoccupa il sindacato. “La nuova tendopoli non sarà sufficiente per coprire il fabbisogno di posti letto rispetto alle presenze - spiega Logiacco -. Mi chiedo dove andranno. All’inizio si parlava di 450 posti. Poi è sembrato ci fosse un’apertura verso i 600 posti, ma ancora non c’è la certezza”. Altro che “assorbimento nel tessuto abitativo locale”, quindi, e i numeri delle presenze nella piana lasciano solo domande al momento senza risposte. “Nel periodo di massima presenza, tra novembre e marzo, nella tendopoli ci sono oltre 2 mila lavoratori: soprattutto uomini, ma anche donne e alcuni bambini. Nei container ci sono circa 200 lavoratori, poi ci sono le fabbriche occupate vicino alla tendopoli, dove si fermano circa 500 persone senz’acqua, senza luce e servizi igienici. Nella fabbrica accanto circa 300 persone. Poi ci sono i casolari abbandonati, difficili anche da raggiungere, dove ci sono dalle 30 alle 50 persone”. Molti di loro si spostano seguendo le varie raccolte in tutta Italia, ma secondo la Flai Cgil, qualcosa sta cambiando. “Da due anni a questa parte è cambiata la tendenza. Una parte di loro resta qui. Prima, invece, la tendopoli si svuotava completamente”.
Un nuovo protocollo è stato sottoscritto anche in Basilicata. Un testo che punta in primo luogo sull’accoglienza abitativa, poi anche su servizi sanitari, incontro tra domanda e offerta di lavoro e trasporti. “A fine 2016 abbiamo sottoscritto un protocollo attuativo - racconta Pietro Simonetti, del Coordinamento migranti della Regione Basilicata -. Nel testo c’è la proposta di realizzazione di due centri di accoglienza per stagionali. Uno a Palazzo San Gervasio, l’altro a Scanzano. Nel primo caso si tratta di una ristrutturazione per dare una sistemazione diversa con strutture fisse, servizi, posti letto e assistenza sanitaria. A Scanzano, una struttura più piccola”. A differenza di altre regioni, in Basilicata il protocollo è uno solo e a inizio maggio ha ricevuto anche il nullaosta da Roma che ha dato l’ok per la realizzazione di due centri di accoglienza per un totale di 500 posti letto. Intanto, in una regione dove il lavoro stagionale è cambiato molto negli ultimi anni, seguendo il ciclo delle diverse coltivazioni ortofrutticole, qualcosa si è mosso. “Lo scorso anno abbiamo aperto due centri e ospitato 400 lavoratori nell’area del Bradano - racconta Simonetti -. Abbiamo creato due punti di assistenza sociosanitaria, uno a Venosa, l’altro a Palazzo San Gervasio. Poi c’è stato lo sgombero del ghetto di Boreano e per quanto riguarda il trasporto, su Venosa è stato organizzato un sistema di navette”.
Anche sul fronte dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro si sta cercando di dare qualche risposta. “Quest’anno ci sarà un punto nei centri per la gestione delle liste di prenotazione - aggiunge Simonetti -. La parte dell’incontro tra domanda e offerta è positiva, come è positivo che gran parte dei lavoratori siano stati ospitati da noi. Rimane una quota di di circa 300 persone che l’anno scorso si sono accampati in casolari. Quest’anno proveremo ad evitare che questo accada. C’è stato, poi, un ottimo lavoro della task force contro il caporalato. Nel 2016 sono state controllate circa 400 aziende e mille lavoratori e non sono mancate multe e denunce”. Anche qui, però, si sente la mancanza di un coordinamento a livello nazionale, ma per Simonetti serve prima di tutto una risposta decisa dei territori. “Il ministero del Lavoro si è impegnato molto nelle ultime settimane - conclude -. Capisco la delusione per la mancata convocazione del gruppo di coordinamento che non è stato mai istituito, ma noi abbiamo ottenuto degli strumenti, dalla legge al protocollo. Devono essere i territori, ora, a muoversi per dare un senso a tutto questo”.(Giovanni Augello)