30 aprile 2021 ore: 11:00
Disabilità

“PSICOdizioRADIO”: il dizionario per parlare (in modo corretto) di salute mentale

Con l’aiuto dei redattori di Psicoradio proviamo a diffondere maggiore consapevolezza sulle parole che riguardano la salute mentale. Brevi pillole da ascoltare, con un dizionario dalla A alla Z sul disagio psichico. Eccoci all'ultimo tassello, la Z di Zoofobia
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BOLOGNA - A come Atti mancati, B come Bullismo, C come Contenzione... e poi agorafobia, tricotillomania, peladofobia, dismorfofobia, ma anche depressione, raptus e infine zoofobia. Psicoradio, la radio di Bologna fatta da pazienti psichiatrici, dopo “le Finestre” lanciate in tempo di lockdown da Covid-19, ci presenta un nuovo format: uno Psicodizionario, o meglio lo “PSICOdizioRADIO”, brevi pillole audio per raccontare il significato di alcune parole che hanno a che fare con il mondo della psiche, termini usati e abusati, scientifici o inventati, accurati o stereotipati.

“Nella vita quotidiana ci imbattiamo spesso in termini che evocano il mondo della psiche; a volte strani, spesso generici, altre volte troppo specialistici – scrive la redazione di Psicoradio –.  Ci sono diagnosi, come depressione, nevrosi o schizofrenia, che sono evase dal campo ristretto della salute mentale, e oggi sono sulla bocca di tutti, utilizzate in modo superficiale per indicare comportamenti e stati d’animo. Altri termini, come matto, pazzo, handicappato, sono usati spesso per offendere. Del significato di alcuni termini, poi, abbiamo solo idee vaghe e a volte inquietanti, ma non vogliamo ammetterlo. E infine ci sono parole che vorremmo sentire più spesso quando si parla di salute mentale: empatia, indipendenza, sensibilità, lavoro, diritti”.

L’obiettivo di questa serie di podcast è quella di diffondere maggiore consapevolezza sulle parole che riguardano la salute mentale, attraverso brevi pillole di comunicazione e cultura realizzate da persone “esperte per esperienza”, pazienti psichiatrici che sul tema del disagio psichico riflettono ormai da anni, sempre con un occhio giornalistico.

Tutto lo "PSICODizioRADIO" dalla A alla Z

Riascolta tutte le puntate dello "PSICODizioRADIO" di Psicoradio.

A come Atti mancanti

“Ho dimenticato ancora una volta il badge per entrare in ufficio”. “Lo conosco benissimo, ma non ricordo mai il nome”. “Mi sono chiusa di nuovo fuori di casa”. Nella prima puntata dello “PSICOdizioRADIO”, i redattori raccontano dimenticanze, lapsus, “errori” di memoria che sono alla base di questi nostri piccoli slittamenti della ragione. Questi “atti mancati” però non mancano mai nell’obiettivo di rivelarci aspetti del nostro inconscio, se solo ci fermiamo ad analizzarli, magari con qualche aiuto. Già alla fine dell’’800 Freud aveva iniziato ad occuparsi dei meccanismi psichici che stanno alla base del fatto che, per esempio, non si riesca a ricordare qualcosa che sarebbe invece normale ricordare: così è nato il suo notissimo“Psicopatologia della vita quotidiana”, che Psicoradio ha saccheggiato per questa puntata. Ma forse la considerazione più notevole sta nell’introduzione di questo vecchio libro di Freud: nelle persone cosiddette “normali” funzionano – in misura molto più limitata e circoscritta, e con meno conseguenze per la vita – gli stessi processi che danno luogo a sintomatologie più gravi in persone con disturbi psichici diagnosticati. Insomma, è una questione di gradi, non ci sono barriere divisorie, e le modalità di funzionamento dell’apparato psichico sono identiche nel nevrotico e in ciascuno di noi, anche di chi vuole considerarsi “normale”.

B come Bullismo

“Hanno cominciato a spintonarmi all’uscita da scuola: io cadevo e ad ogni caduta erano risate. Quelle risate me le porto ancora dentro e per molto tempo le ho interpretate come l’unico giudizio che gli altri potessero avere di me”. La lettera B dello “PSICOdizioRADIO” è l’iniziale di “bullismo”: una prevaricazione nei confronti di un coetaneo, che scava nell’identità della persona che la riceve. Il ripetersi degli episodi, la perdita dei contatti con gli amici, la perdita di autostima, si intrecciano in una spirale che si autoalimenta nella solitudine e nell’insicurezza, che in alcuni casi può sfociare anche nel suicidio della vittima. In questa puntata, ascoltiamo alcune ragazze che hanno subito bullismo molti anni fa: dopo averci riflettuto a lungo, hanno cercato di superare i traumi, a volte con un aiuto psicologico. “È la dimostrazione come non si possano liquidare gli episodi di bullismo come ragazzate – scrivono i redattori della Psicoradio –. Gli occhi vanno tenuti sempre aperti, e le orecchie pronte all’ascolto di grida d’aiuto che spesso, proprio a causa della spirale in cui i ragazzi cadono, rischiano di diventare sempre più flebili”.

C come Contenzione

Si scrive “contenzione”, si legge “legare”. Nella nuova puntata dello “PSICOdizioRADIO”, i redattori della Psicoradio di Bologna parlano di questo particolare atto, che nasce con l’obiettivo di limitare i movimenti di un individuo. A parlare è Giovanna Del Giudice, psichiatra, che in tutta la sua carriera si è sempre battuta contro questa pratica, che di fatto “viola il diritto costituzionale al libero movimento”. Del Giudice descrive alcuni dei molteplici modi che si usano per bloccare le persone. Di solito si pensa che la contenzione consista solamente nel legare una persona al letto: questo però è solo il “più classico dei metodi”, quello usato spesso per gli anziani, si dice per timore che possano cadere o farsi male. La verità però è che si impedisce il movimento, e quindi si agisce contro la libertà, anche nei reparti con le porte chiuse, con le finestre sbarrate, con i giardini inaccessibili. Per Giovanna Del Giudice il giudizio è netto: “Legare è illegale ed è una violenza. Bisogna saperlo e bisogna dirlo”. Secondo i redattori della Psicoradio, quindi, “nessun medico che decida di legare può ritenersi assolto. In tutti i settori, e nella salute mentale in particolare, è compito del medico e di tutti coloro che si prendono cura del malato riuscire a capire il dolore della persona, mettere in campo tutte capacità relazionali per impedire che chi sta male si faccia del male e faccia del male. Al dolore non è possibile rispondere con la violenza”.

D come Disturbo di personalità borderline

Esistono sensibilità forti, patologiche. Ci sono persone che è come se avessero uno strato di pelle più sottile delle altre: spesso vogliono attenzione, vogliono piacere, sono molto seduttive, ma rischiano di esporsi troppo alle delusioni e basta uno sguardo per colpirle, per farle stare male. E a volte si fanno male da sole. Nella quarta puntata dello “PSICOdizioRADIO”, i redattori della Psicoradio parlano del disturbo di personalità borderline e intervistano la psichiatra Maria Grazia Beltrami, che coordina un progetto sui disturbi di personalità per l’Ausl di Bologna in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Beltrami descrive ciò che sente chi soffre di questo disturbo: una patologia che denota una grandissima sensibilità, dalla quale si può guarire, e che in Italia non viene mai diagnosticata prima dei 18 anni, per essere certi che non si tratti di un periodo transitorio di crescita.

E come Empatia

Cosa succede quando una persona che dovrebbe prendersi cura di te, che dovrebbe accoglierti, ti tratta con estrema freddezza? Umberto Galimberti, nel Dizionario di psicologia, descrive l'empatia come la “capacità di immedesimarsi in un'altra persona fino a coglierne i pensieri e gli stati d'animo”. Ma quanto è difficile mettersi nei panni di qualcun altro? Comprenderne il dolore? In questa puntata dello “PSICOdizioRADIO”, i redattori della Psicoradio raccontano il proprio rapporto con questa particolare emozione. Per alcuni l'empatia che si è creata con alcune persone era solo illusoria: è successo a Vincenzo, con un suo ex professore di università, e a Gian Maria nel suo rapporto con una psicologa. Barbara, ha invece avuto la fortuna di incontrare un’infermiera empatica e comprensiva, che l'ha aiutata in un momento molto difficile. Coltivare l’empatia dovrebbe essere al centro del rapporto tra paziente e curante. Per lo psichiatra e psicanalista Eugenio Borgna, la relazione tra i due non si può trovare nella diagnosi né nella cura in sé, ma nell’atteggiamento di ascolto della sofferenza, un’esperienza che accomuna tutti gli esseri umani.

F come Film

Tensione, eccitazione, terrore: la visione dello stesso film può suscitare negli spettatori le più differenti reazioni psicologiche. In questa puntata i redattori della Psicoradio raccontano il proprio rapporto con il mondo del cinema. A partire da Dogville di Lars Von Trier, che ha provocato emozioni forti e molto contrastanti: una risata catartica quasi isterica, un senso di oppressione che si è sciolto in un pianto, il desiderio impellente di andarsene a metà film. Dai primi anni del Novecento, gli effetti del cinema sono stati indagati dalla psicologia, che intuiva la capacità delle immagini filmiche di creare connessioni con l’inconscio dello spettatore. Dall’altro lato, molti registi hanno saccheggiato la psicanalisi per le loro sceneggiature. Del resto, cinema e psicoanalisi sono nati praticamente insieme, a fine Ottocento, e da allora sono cresciuti intrecciandosi in una relazione molto profonda: non a caso, Hollywood è sempre stata definita “La fabbrica dei sogni”.

G come Guaritore

Chi è un guaritore? E come viene visto nelle culture di diversi paesi? La lettera G è l’iniziale di “guaritore”: in Occidente il termine viene usato spesso in senso dispregiativo, per persone di dubbio sapere, quando non veri e propri ciarlatani. In altre culture invece il guaritore ha un ruolo molto importante. È un mediatore con la divinità, e grazie a questa mediazione può portare la guarigione, scrive l’etnopsichiatra e antropologo Roberto Beneduce nel suo Breve dizionario di etnopsichiatria. Nella biografia del guaritore c’è spesso una vicenda di grande sofferenza, interpretata come prova della sua capacità di guarire perché testimonianza di una sua vicinanza alla morte e delle sorgenti divine del suo potere terapeutico. Faustin Afatrack, di cultura Bantu e immigrato in Italia dall’Africa centrale, fondatore di una radio per migranti, ricorda il padre guaritore e l’importanza del rituale: “Quando mio padre riceveva un paziente non poteva farlo sempre e dovunque, tutto doveva essere nella condizione giusta. Lui diceva che è il primo impatto che guarisce al 40 per cento. E il rituale è molto importante”.

H come Hikikomori

Avete mai desiderato rinchiudervi nella vostra cameretta e non uscirne più? Agli Hikikomori succede. Il termine è stato coniato per la prima volta negli anni ‘80 da uno psichiatra giapponese, e indica persone che hanno la tendenza a ritirarsi, rinchiudersi, isolarsi. Per capire qualcosa di più su questo fenomeno, abbiamo intervistato Hiroaki Hambo, infermiere e assistente sociale giapponese, che descrive la situazione nel suo Paese, dove quella dei “ragazzi rinchiusi” è una vera e propria emergenza sociale. Insieme a lui c’è Yuri Ywasaki, studentessa universitaria, che in passato è stata una Hikikomori e che racconta la sua esperienza. Infine Elena Carolei, presidente dell’associazione “Hikikomori Genitori Italia” spiega quali sono i sintomi che devono allarmare e qual è la tendenza del fenomeno nel nostro Paese.

I come Invidia del pene

Che cos’è la cosiddetta “invidia del pene”? Esiste davvero, o è solamente una costruzione sociale? La lettera I dello “PSICOdizioRADIO” è dedicata proprio alla teoria dell’invidia del pene, elaborata da Freud a partire dal 1905. I redattori della Psicoradio raccontano che, secondo Freud, questo sarebbe un elemento determinante, ineliminabile, della vita psichica della donna. L'invidia del pene nascerebbe quando la bambina, vedendo un maschietto, si accorgerebbe della propria “inferiorità organica”: non percepirebbe l'assenza del pene semplicemente come una differenza, ma come una mancanza, il marchio di un'evirazione. “Con il riconoscimento della ferita inferta al suo narcisismo, si produce nella donna - quasi fosse una cicatrice - un senso di inferiorità”, scrive Freud, che lascerà tracce incancellabili nel suo sviluppo e nella formazione del suo carattere. E da lì che si costituisce per Freud la differenziazione tra i due sessi, uno più forte (quello maschile) e uno più debole (quello femminile). A partire dagli anni Sessanta del Novecento, la teoria dell’invidia del pene è stata duramente contestata da alcune psicanaliste e dal movimento femminista, che ha accusato Freud di avere fatto confusione tra biologia e cultura, e di avere santificato l'oppressione patriarcale considerandola invece una legge inevitabile della biologia. E allora viene un dubbio: non è che Freud avesse – inconsciamente! – paura del fatto che le donne arrivassero a ribaltare questa concezione di superiorità maschile stratificata da tanti secoli? O che per caso Freud, quando ha elaborato la teoria dell’invidia del pene, soffrisse in realtà –inconsciamente! – di una potente invidia?

L come Ludopatia

La ludopatia è la persistente incapacità di gestire e resistere all’impulso di attuare comportamenti legati al gioco, in particolare alle scommesse. Nei manuali diagnostici si parla di “disturbo da gioco d’azzardo”. Ma, da un punto di vista linguistico, l’Accademia della Crusca estende il termine ludopatia a una serie più ampia di comportamenti di gioco patologici: non si parla quindi solo di lotto, gratta e vinci o slot machines, ma anche di videogiochi e altri intrattenimenti, arrivando ad esempio agli scacchi. Il discrimine non è quindi necessariamente la brama di una vincita in denaro. I redattori della Psicoradio analizzano quindi i comportamenti legati alla ludopatia, rilevando che è l’atteggiamento nei confronti del gioco che deve far preoccupare. Infatti il gioco, che di per sé non è una patologia, può diventare un'autentica dipendenza, anche se “sine substantia”, ovvero senza sostanza. E come tutte le dipendenze, anche questa produce effetti seriamente invalidanti sulle relazioni sociali o sulla salute. Per questo, la ludopatia, come le altre dipendenze, non deve essere sottovalutata, ma tenuta sotto controllo e curata, rivolgendosi ai Sert.

M come Musicoterapia

Ascoltare musica, suonare uno strumento, scrivere o cantare una canzone: la musicoterapia lavora in modo sistematico per rendere il suono uno strumento di cura. Per Galimberti, ad esempio, con la musicoterapia “si utilizza la musica nel suo aspetto creativo, esecutivo e di ascolto, sia per il suo valore catartico sia per quello espressivo, che si rivela particolarmente idoneo per esternare vissuti difficilmente traducibili nel linguaggio verbale”. I redattori della Psicoradio approfondiscono il tema intervistando la musicoterapista Ombretta Gentile, che spiega come la musicoterapia sia un insieme di discipline mediche in cui la musica viene usata a discrezione del terapeuta tanto in maniera attiva (suonando, facendo musica) quanto in maniera ricettiva (attraverso l'ascolto), confrontandosi con il paziente sui contenuti emotivi dell'esperienza. La musicoterapia è particolarmente efficace per risolvere problemi di comunicazione, e viene usata in casi anche gravi e non solo in ambito psichiatrico: ne possono trarre giovamento, ad esempio, i malati di Alzheimer, le madri nel periodo pre e post parto o i giocatori patologici. Tutto della musica può essere strumento di cura, e inconsapevolmente ognuno di noi ne fa esperienza in maniera quotidiana: l'intensità del suono può aiutarci a placare una rabbia violenta, alcune melodie ci fanno entrare in connessione con il nostro dolore, il contatto fisico con le corde della chitarra, che pizzichiamo mentre suoniamo, ci rilassa. La musicoterapia è questo e molto altro. Ma, attenzione, avverte la dottoressa Gentile: “Non è l'equivalente di imparare a suonare uno strumento musicale. È molto di più”.

N come Negazione

“La persona del sogno non è certo mia madre!”. Nel 1925 Freud, in apertura del suo saggio intitolato “La negazione”, ricorda questa affermazione fatta da un paziente, assieme a un’altra: “Non è mia intenzione dire qualcosa di offensivo!”. Entrambi esempi di quelle dichiarazioni che, in modo inconscio, significano in realtà il contrario di ciò che abbiamo per un attimo pensato. Questa nuova puntata parla della negazione, il meccanismo di difesa – inconscio – con il quale una persona gestisce pensieri, idee disturbanti o angosciose affermando esplicitamente il contrario del contenuto angoscioso. Per esempio, dice “Non sono arrabbiato" quando invece i suoi toni o i segnali non verbali denotano evidente aggressività. Nella negazione, insomma, le persone possono affrontare una percezione o un pensiero che li disturba o li angoscia, solo se contemporaneamente lo negano. Di questo discutono i redattori della Psicoradio, raccontando che Freud ha studiato a fondo questo meccanismo, da una parte come necessità di esprimere qualcosa che è nel nostro inconscio, ma anche come modo per disapprovare, consapevolmente, quanto – almeno per un attimo, in libertà – è stato pensato. Solo che questo veloce pensiero che mi è passato per la mente non mi piace affatto. E torna in mente il detto popolare “Qui lo dico e qui lo nego!”

O come Outsider art

““Outsider art”, o arte irregolare, o art brut: sono i termini utilizzati per indicare le opere create da persone che non hanno avuto un percorso di formazione tradizionale in campo artistico, e sono al di fuori di scuole o movimenti. L’outsider art è spesso utilizzata per indicare anche le opere prodotte da persone con disagio psichico. L'arte irregolare è quasi sempre al di fuori del mercato dell'arte ufficiale. Con gli anni, la correlazione tra outsider art e disagio psichico è diventata sempre più sottile: come viene percepita oggi? E quanto è effettivamente corretto escluderla dall'arte ufficiale? il professore di psicologia dell'arte all'università di Bologna Stefano ferrari, spiegando ai microfoni che cos'è l'outsider art, afferma che “parlando di arte irregolare si finisce sempre per parlare delle irregolarità nella sfera psichiatrica. Non è l'unica, però si tratta sempre di persone che qualche marginalità ce l'hanno o che la vogliono avere”. C'è chi invece ha cercato di elidere il confine tra il mercato dell'arte ufficiale e l'arte irregolare. Massimiliano Gioni, curatore della 55° Biennale d'arte di Venezia, ha voluto rimuovere ogni tipo di distinzione esponendo opere di circuiti ufficiali insieme ad opere create in manicomi, carceri, luoghi solitari. Spiegando le motivazioni che hanno portato a fare questa scelta, Gioni infatti afferma che “tutti sono uguali, perché tutti stanno cercando di dare un senso al mondo, di trasformare le immagini in strumenti per conoscere se stessi e parlare con altri esseri umani. Quella è la natura e la magia dell'arte e quello lo può fare chiunque”.”

P come Psicosi

Una storia verosimile, ma non vera, costruita partendo da dati reali. La lettera P dello “PSICOdizioRADIO” parla della psicosi. Avete mai sentito parlare di persone che si possono credere coinvolte in situazioni che vedono in televisione? Oppure di chi si sente minacciato o perseguitato come se fosse la vittima di un complotto o di un attentato? “Con il termine psicosi – racconta la psichiatra Angela Tomelli del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna – si fa riferimento a una serie di malattie psichiche caratterizzate da alcuni elementi comuni. Uno di questi, forse il più importante, è l’alterazione dell’esame di realtà”. Molti sono i sintomi e i segnali da osservare, per sospettare il nascere di un disturbo psicotico: eccessivo ritiro sociale, sensazioni di panico, scene di mutismo, insonnia, ansia molto forte. “È importante essere pronti all'ascolto di chi comincia ad avere segnali disturbo psicotico – sostiene la dottoressa Tomelli – e chiedere un aiuto, anche solo al medico di base". Infatti, a differenza di quanto si pensa, guarire da un disturbo psicotico è possibile: servono cure farmacologiche che possono alleviare i sintomi, ma sono necessarie anche cure relazionali, per cercare di fare emergere quelle capacità emozionali e affettive che la malattia ha momentaneamente nascosto.

Q come Quarantena

Quali ripercussioni ha avuto la pandemia da Covid-19 sulla cura in ambito psichiatrico? E quali effetti sta provocando un periodo di isolamento prolungato sulla salute mentale delle persone? La nuova puntata dello “PSICOdizioRADIO” non può che essere la Q di Quarantena. Il termine quarantena – in origine “un periodo di quaranta giorni di segregazione al quale vengono sottoposte persone, animali e cose” – non è direttamente riconducibile all'ambito psicologico o psichiatrico. Eppure, le conseguenze di questa sulla sanità mentale sono tantissime. Abbiamo passato in rassegna alcuni titoli significativi di articoli pubblicati nel corso di questo lungo anno e abbiamo fatto una ricognizione tra gli umori della redazione: noia, sensazione di tornare indietro, apatia, grigiore, vuoto, tristezza, paura, senso di oppressione sono alcune delle sensazioni prevalenti, mentre pochi sono i termini che danno uno spiraglio di luce – tranquillità, relax, riflessione. Secondo uno studio della Società Italiana di Psichiatria, nel 2020 la prima ondata di Covid-19 ha ridotto sensibilmente le attività dei servizi di salute mentale nel nostro paese: le visite programmate sono state garantite solo per i pazienti più gravi e la maggior parte sono state sostituite da colloqui a distanza. L’Agenzia Italiana del Farmaco segnala che durante i primi mesi di lockdown è aumentato notevolmente l'acquisto di ansiolitici e antidepressivi da parte della popolazione. Ora, in questa nuova fase, sono in aumento i casi depressione, ansia e sindrome post-traumatica da stress, non solo fra i guariti Covid ma anche fra molti di coloro che si trovano, loro malgrado, a vivere in condizioni molto diverse da un anno fa. E allora, ecco che risulta chiaro come la quarantena abbia con il disagio psichico un legame molto stretto.

R come Raptus

Raptus è un termine problematico, quasi “sdrucciolevole”: una “buccia di banana” su cui spesso scivolano giornali e mezzi di comunicazione quando urlano titoli come “raptus di follia”, “raptus omicida” o “raptus di gelosia”, e così via. È proprio del raptus (o presunto tale) che si occupa la nuova puntata dello “PSICOdizioRADIO”: i redattori della Psicoradio partono dalla definizione tratta dal Dizionario di Psicologia di Umberto Galimberti, dove questo atto viene definito come “un impulso violento e improvviso che porta ad atteggiamenti distruttivi, fino all'omicidio e al suicidio per effetto di un sovraccarico affettivo o per mancanza di controllo in situazioni impreviste e imprevedibili”. Secondo la psichiatra Ivonne Donegani, il cosiddetto raptus non va assolutamente associato a persone che hanno un disagio psichico, perché può accadere a chiunque. Donegani va oltre: “Non credo che esista il raptus, qualcosa che improvvisamente succede: c'è qualcosa prima che può in qualche modo motivare un certo evento”. Cos'è allora quel qualcosa che viene prima? Se ad esempio prendiamo in esame la violenza che gli uomini commettono sulle donne, quegli episodi che impropriamente diversi giornalisti definiscono appunto “raptus” vengono da lontano, da modelli culturali patriarcali, il frutto nocivo di concezioni sbagliate dei rapporti tra uomo e donna, come spiega ai nostri microfoni Stefano Ciccone di Maschile Plurale.

S come Stigma

Pensiamo tutti di sapere cosa indica la parola “stigma”, ma il termine ha più significati a seconda dei contesti in cui è usato. In botanica, per esempio, stigma indica una parte del fiore, anzi, del suo pistillo, che ha la funzione di trattenere il polline, mentre in zoologia è il nome di alcune macchie colorate delle ali delle farfalle e di altri insetti. La nuova puntata dello PSICOdizioRADIO parla proprio dello stigma. I redattori della Psicoradio raccontano che quelle “macchie”, in campo psico-sociale, cominciano a diventare dei segni incancellabili, come i marchi che anticamente venivano impressi sui corpi degli schiavi: si tratta dell'attribuzione pregiudiziale di qualità negative a una persona o a un gruppo di persone: “i musulmani sono terroristi”, “i malati mentali sono violenti”, e così via. Il sociologo Erving Goffman, nel suo libro Stigma. L'identità negata, del 1963, descrive il ventaglio di ruoli e identità che la società propone come “normali” e gli ambiti principali di stigma. Chi non aderisce ai ruoli preconcetti è facilmente vittima di stigmatizzazione e tra gli effetti ci sono un forte sentimento d’inutilità e tendenza all’isolamento sociale. Usando le parole dello stesso Goffman: “L’individuo stigmatizzato può mostrarsi insicuro sul modo in cui i ‘normali’ lo identificheranno e lo riceveranno”. E proprio così si è sentita M., una redattrice di Psicoradio, quando, dopo un lungo ricovero psichiatrico, è tornata al solito bar a bere un succo di frutta con gli amici. Alcune persone, che lì l'avevano vista molte volte e con le quali spesso aveva parlato, non hanno risposto al suo saluto e non le si sono più avvicinate, nella convinzione che fosse “diversa da loro”. È servito del tempo perché lei si togliesse di dosso la sensazione di essere sbagliata.

T come Trattamento sanitario obbligatorio

TSO. E' uno degli acronimi più utilizzati (e talvolta abusati) quando si parla di salute mentale. Che cos’è davvero il Tso? È un trattamento di cura non volontario, effettuato in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc). Può essere ordinato in caso di necessità e urgenza, qualora “la persona, per le condizioni in cui sta in quel momento, non riconosca il suo stato di malattia acuto e quindi non accetti le cure”. Così lo definisce Katia Nicoli, responsabile del Spdc di San Giovanni in Persiceto (Bologna). Dato che produce una limitazione della libertà personale, il Tso è soggetto a molti vincoli: “Con la legge 180 del 1978, si è deciso di regolamentare i trattamenti obbligatori in una maniera indiscutibile”, spiega Katia Nicoli. Il Tso infatti è disposto dal sindaco, in quanto rappresentante dell'autorità sanitaria del Comune, su proposta di due medici, di cui almeno uno appartenente alla Asl competente. Il giudice tutelare ha 48 ore di tempo per convalidare il provvedimento. “A garanzia di chi viene ricoverato, la legge sancisce che può fare ricorso chiunque ritenga che un trattamento sia stato fatto in maniera non corretta, e non solo chi l'ha subito”, sottolinea Nicoli. Per quanto si possa fare attenzione nell'usare questo strumento, che nella legge dovrebbe essere riservato a casi che non hanno altra via di risoluzione, purtroppo però si leggono ancora cronache di pazienti morti durante un trattamento sanitario obbligatorio. Molte sono le associazioni che si battono perché ciò non accada più, e anche la redazione di Psicoradio ricorda una frase che è stata ripetuta da diversi psichiatri: “In ogni caso, il Tso è un momento di fallimento della cura”. Un momento in cui, insomma, tra curante e curato non si è trovata nessuna possibilità di dialogo.

U come Uditori di voci

“Ho cominciato a sentire 2 voci, poi 3, poi 5, 6”. “Ho iniziato a udire le voci da bambina, prima le voci dei defunti, per poi arrivare alle voci degli animali e della natura circostante”. “Le voci possono essere tenute a bada attraverso un rapporto di fiducia tra l'uditore e lo psichiatra, lo psicologo”. La lettera U dello PSICOdizioRADIO è dedicata agli uditori di voci: viene definito “uditore di voci” chi vive l’esperienza di sentire voci (a volte buone e amichevoli, altre volte cattive e minacciose) che nessun altro sente. I redattori della Psicoradio raccontano che, per la psichiatria tradizionale occidentale, sentire le voci è considerata una allucinazione, un episodio psicotico spesso identificato con la schizofrenia: solo raramente si indaga il senso del fenomeno, le possibili cause, perché la priorità è cercare di attenuare i sintomi. Da 20 anni però si sta facendo strada un approccio radicalmente diverso, il metodo “Recovery”, adottato da professionisti della salute mentale e dagli uditori di voci stessi. Per il Recovery diversi fenomeni, tra cui quello di “udire le voci”, non sono solo sintomi di malattia da eliminare o ridurre, ma esperienze che hanno un senso per chi le vive, da indagare – uditori ed esperti insieme – per capire, tra l’altro, come si è sviluppato il disturbo: ricerche indicano che circa il 70% degli uditori di voci ha subito un trauma quando non era in grado di affrontarlo. Ron Coleman è un noto uditore di voci scozzese: dopo una diagnosi di schizofrenia, 10 anni in istituti psichiatrici inglesi e 40 TSO, ha deciso, come dice lui, di “prendere in mano la sua vita”. Oggi scrive libri e gira il mondo, invitato a fare formazione a psichiatri e uditori di voci sul metodo Recovery, che gli ha permesso, in un percorso in cui collaborano esperti, gruppi di auto-mutuo aiuto e la persona stessa, di riprendere il controllo della propria vita.

V come Vaginismo

““Continuavo a chiedere alla mia ginecologa se io la avessi la vagina, se ci fosse in me un buco”. Nel documentario “D’amore si vive” di Silvano Agosti (1984), una ragazza racconta con queste parole la sua “chiusura”, il difficile rapporto con il suo corpo e la sessualità. Il vaginismo è un sintomo che spesso rende impossibili o molto difficili i rapporti sessuali: si tratta di uno spasmo involontario della muscolatura della vagina che ostacola la penetrazione sia nel rapporto sessuale che, ad esempio, nell’inserimento di oggetti medicali durante una visita ginecologica. È proprio di vaginismo che si occupa questa puntata dello PSICOdizioRADIO: i redattori della Psicoradio raccontano che solo in minore percentuale questo disturbo deriva da cause fisiche, legate alla conformazione del corpo, a cambi ormonali o a operazioni chirurgiche come le mutilazioni genitali. “Nella maggior parte dei casi – racconta la psichiatra e psicanalista Mariangela Pierantozzi – la causa è psicologica. Ci sono ad esempio donne che considerano ancora il sesso qualcosa di sporco, che si vergognano di abbandonarsi davanti all’uomo a causa di una educazione familiare o religiosa molto rigida, o che temono di dover affrontare una gravidanza; altre hanno subito violenze e sono terrorizzate dell’atto sessuale”. Quando il disturbo è di origine psichica diventa fondamentale cercarne le cause attraverso una psicoterapia psicodinamica anche se, afferma la dottoressa Pierantozzi, “spesso la rigidità fisica è anche una chiusura in ambito relazionale, ed è difficile affrontare il tema”. A volte è necessaria anche una terapia comportamentale, che attraverso esercizi di rilassamento porti la donna a riappropriarsi del rapporto con il proprio corpo.

Z come Zoofobia

“Quentin Tarantino soffre di musofobia, paura dei topi, Jonny Depp di aracnofobia, paura dei ragni… Un redattore di Psicoradio, dopo aver visto il film “Lo Squalo” di Spielberg, 40 anni fa, al mare non riesce a spingersi più in là di 10 metri dalla riva per il terrore degli squali. È la zoofobia, la paura immotivata e patologica suscitata dalla presenza o anche solo dal pensiero di una determinata specie animale, tanto che chi ne soffre spesso non riesce neanche a guardarne una immagine. A questo tema è dedicata l’ultima puntata dello PSICOdizioRADIO, la rubrica che, attraverso brevi pillole audio, racconta il significato di alcune parole che hanno a che fare con il mondo della psiche. Zoofobia è un sostantivo femminile formato dal vocabolo greco “zoon”, animale, e “phobia” paura: i sintomi vanno dall'ansia alla tachicardia, a veri e propri attacchi di panico. Per stare meglio ci sono diverse strade, a seconda dell’approccio usato; i farmaci possono essere efficaci solo per mitigare i sintomi, per esempio per controllare l’ansia, ma non costituiscono una cura. Per la psicoanalisi, la fobia è il frutto della rimozione di contenuti inconsci, spesso riferiti ad un evento traumatico subito o a pulsioni sessuali – un’idea, un desiderio o un impulso considerati inaccettabili. Non potendo gestire il trauma o la pulsione, la persona li “sposta” fuori di sé, in questo caso su un animale (ma possono essere anche luoghi, colori, suoni…). La cura dunque dovrà cercare di indagare le cause della fobia attraverso una psicoterapia psicodinamica, che spesso viene accompagnata anche da una terapia cognitivo-comportamentale, attraverso la quale il paziente impara ad usare tecniche di rilassamento che abbassano l’ansia, a riconoscere e modificare alcuni pensieri che portano in maniera automatica alla reazione fobica. Una strategia efficace è anche l’avvicinamento graduale all’animale che si teme, all’inizio facendo ricerche senza immagini, poi inserendole, infine cercando, quando possibile, di cominciare a farne conoscenza. Per scoprire, alla fine, che probabilmente ad essere più terrorizzato sarà proprio l’animale!

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