Quelle suore antiche che accolgono famiglie siriane in cerca di futuro
Apri bene gli occhi e le orecchie. C’è uno stridore nell’aria, se ti concentri lo puoi percepire. E’ come un sovrapporsi di tempi e luoghi che non potrebbero, in teoria, coesistere. Ma nei fatti sono contemporanei. Da un lato la giovane donna araba, con il lungo abito nero e il velo bianco in testa, che ti accoglie con un accenno di sorriso; dall’altro i corridoi larghi e alti e le vetrate di un tipico istituto di metà ottocento, abitato e animato da religiose. Il silenzio evocato dai grandi saloni, la baraonda di ragazzini che rincorre il pallone giù in cortile. Ti aspetti di incrociare la timidezza e la solitudine di Oliver Twist e invece ti viene incontro un idioma sconosciuto del medio oriente.
Oggi, in questo imponente istituto di suore si apre una casa per accogliere le famiglie scappate dalle tribolazioni e dai pericoli della guerra civile siriana. Quasi la metà degli abitanti di quel disgraziato paese ha dovuto lasciare la sua casa, il suo lavoro, le sue radici. Come se l’intera Lombardia si fosse messa in marcia. Sei di quei nove milioni sono profughi interni, costretti a spostarsi da una parte all’altra della Siriia, mentre gli altri tre milioni sono usciti dal paese. Per cento di questi, nasce un’opera frutto della collaborazione tra l’amministrazione comunale milanese, Caritas Ambrosiana, consorzio e cooperativa Farsi Prossimo e, appunto, le Suore della Riparazione.
Mi colpisce subito questo convivere e mescolarsi di vocazione antica e bisogni urgenti, questa capacità di reinventarsi per rispondere a ciò che urla e spinge: gli arrivi continui e pressanti in stazione centrale.
L’istituto, infatti, è di quelli antichi, nati dall’iniziativa di un sacerdote e una religiosa per accogliere ragazze "devianti" di cui si seguiva il recupero sociale e l'inserimento lavorativo; poi, nel corso degli anni - a seguito di mutamenti sociali e culturali - il servizio si è rivolto sempre di più a ragazze provenienti da un ambiente familiare e sociale disagiato e da situazioni fortemente traumatiche.
Infine, un nuovo e più netto allargarsi degli orizzonti, la mano tesa ai fratelli e alle sorelle musulmane in fuga dal proprio Paese; in un’ala dismessa di quella stessa istituzione, nasce ufficialmente Casa Suraya. La struttura è infatti intitolata alla prima figlia dei profughi siriani nata in città, lo scorso 7 maggio. La madre, nonostante il parto imminente, non voleva essere accompagnata in ospedale, perché intendeva proseguire il viaggio verso il nord Europa e temeva che far nascere la bambina in Italia l’avrebbe costretta a farsi identificare. Ma per gli operatori sociali che l’avevano accolta, il rischio per la salute di mamma e bambina era troppo alto e hanno insistito perché Suraya – che significa speranza – potesse avere l’assistenza necessaria.
Ora la famiglia siriana è ripartita per la Svezia con la sua piccola, ma ha lasciato questo bel nome a Milano.
Padre Carlo Salerio, fondatore dell’istituto, così diceva alle prime quattro suore della riparazione: "Il mondo non si accorge di quanto si compie in questa umile casetta. Invece gli angeli custodi, sotto gli auspici dei quali si fonda la casa, e che presiedono a quanto stiamo compiendo, vedono in voi le pietre fondamentali su cui si innalzerà l'edificio di una istituzione che dovrà portare alla terra una benedizione immensa”.
Anche i musulmani credono negli angeli custodi e nella loro particolare e personale protezione.
Un altro dei richiami e degli intrecci di questa piccola storia, tra ritorni alle radici, vocazioni antiche e proiezioni verso speranze future.