16 gennaio 2015 ore: 16:33
Giustizia

Raccolta abiti usati: “Difficile per le coop sottrarsi alla camorra”

L’indagine della Dia di Roma sul traffico illegale di indumenti gettati nei cassonetti gialli, parla il ricercatore Pietro Luppi (Occhio del riciclone). “Chi ha provato a creare una filiera alternativa ha avuto guai seri”. Un giro d’affari da 600 milioni
Abiti usati su grucce

MILANO - Gli indumenti usati puzzano di camorra. L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Roma, rivelata ieri, che ha portato a 14 ordinanze di arresto con l'accusa di aver gestito un traffico illegale di indumenti usati raccolti tramite i cassonetti gialli, è solo la punta dell'iceberg. Tanto che nel rapporto della Direzione nazionale antimafia, pubblicato nel gennaio 2014, si legge che “buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti”.

Una frase che getta un'ombra pesante sulle tante raccolte che le onlus lanciano in ogni parte d'Italia. Il problema sta soprattutto nella filiera. Perché nella stragrande maggioranza dei casi, gli abiti raccolti vengono venduti a imprese specializzate: queste ultime poi li selezionano, li igienizzano e una parte degli indumenti ritornano sul mercato (sia Italiano che estero) e una parte viene riciclata come tessuto.

Ed è in queste fasi della filiera che vengono compiuti gli illeciti: indumenti non igienizzati, documentazioni falsificate, smaltimenti abusivi dei residui di lavorazione. Nel 2013 sono stati raccolte circa 110 mila tonnellate di indumenti. "Le imprese che gestiscono la lavorazione degli abiti li comprano alle onlus a circa 35 centesimi al chilo - spiega Pietro Luppi, direttore del centro ricerche 'L'occhio del riciclone', ente che studia il fenomeno -. E al termine della filiera li rivendono a circa 6 euro al chilo". Si tratta quindi di un giro d'affari di oltre 600 milioni di euro e solo una piccola parte rimane alle onlus.

I centri di gestione degli abiti usati sono concentrati a Ercolano (Napoli) e a Prato. La Direzione distrettuale antimafia scrive che "questo fiorente ed enorme mercato illecito è gestito in parte da soggetti legati alla criminalità organizzata ed in particolare al clan camorrista Birra–Iacomino, attivo nella zona di Ercolano". È difficile, dunque, per le onlus garantire che gli abiti raccolti non finiscano nelle loro mani.

"Questi clan riescono ad accedere agli indumenti usati grazie a un gran numero di cooperative, che mettono la loro faccia sul territorio - sottolinea Pietro Luppi - Senza queste cooperative i cittadini, che donano e conferiscono i loro indumenti per solidarietà, non collaborerebbero mai con filiere economiche di questo tipo".

Nell'inchiesta romana sono finiti agli arresti o indagati anche dirigenti di cooperative sociali. "Esiste una responsabilità di chi gestisce le raccolte e ci mette il proprio logo, ma allo stesso tempo non bisogna commettere l'errore di criminalizzare le cooperative. Bisogna costruire un settore di intermediazione sano, non mafioso, equo verso tutti i suoi partecipanti".

In altri termini, o il mondo del terzo settore impara a gestire tutta la filiera o non sarà mai sicuro che gli indumenti donati dai cittadini non finiscano nelle mani della criminalità organizzata. "I cittadini difficilmente accetterebbero di donare se sapessero di star favorendo la camorra, difficilmente cascherebbero in un appello di solidarietà se sapessero che il 95% del valore di ciò che donano e conferiscono non solo è gestito per avere profitti economici, ma è anche gestito in maniera poco etica", afferma Luppi. Il problema però, conclude il ricercatore, è che sottrarsi al controllo della criminalità e costruire una filiera alternativa  non è affatto semplice: a quanto risulta, le due cooperative coinvolte nell’indagine del momento – Lapemaia e Consorzio Bastiani – ci avevano provato varie volte, ma ne avevano ricavato tre incendi ai loro magazzini tra il 2004 e il 2009. (dp)

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