Rana Plaza, la sopravvissuta: “Le aziende italiane versino il risarcimento che ci spetta”
Shila Begum
Shila Begum |
ROMA - “Non sono qui a chiedere un regalo per me, ma a rivendicare un diritto che non è solo mio ma riguarda tutti i lavoratori di Rana Plaza. E’ passato un anno dalla tragedia e tutti i dipendenti della fabbrica fanno fatica ad andare avanti, ma lì noi stavamo lavorando per tutti, per aziende anche italiane, non è possibile che ancora oggi siamo qui a chiedere il risarcimento che ci spetta”. A sottolinearlo, oggi a Roma, in una conferenza stampa presso la sede della Fnsi è Shila Begum, lavoratrice tessile sopravvissuta al terribile crollo dell’edificio di Rana Plaza, nell’aprile 2013, costato la vita a 1138 persone e il ferimento di oltre 2000 operai e operaie. Shila è volata per la prima volta in Italia per un tour di incontri con le istituzioni e la società civile italiana ( è stata ricevuta tra l’altro dalla Commissione diritti umani del Senato e dalla vicepresidente del Senato Valeria Fedeli). L’obiettivo è far partire una campagna di pressione per convincere le aziende italiane a risarcire le vittime attraverso il fondo Rana Plaza donor trust fund, a cui altre imprese internazionali hanno già fatto le prime donazioni. Sotto accusa, in particolare c’è Benetton, per cui le lavoratrici di Rana Plaza confezionavano alcuni capi d’abbigliamento, a cui si chiede di versare 5 milioni di dollari. Contributi sono poi richiesti alle altre due aziende italiane coinvolte: Manifattura Corona e Yes Zee, anche loro per ora non hanno ancora versato un centesimo.
“A mezzo stampa Benetton ha fatto sapere che, per fare prima, sta portando avanti un fondo privato per il risarcimento – spiega Debora Lucchetti, portavoce in Italia della campagna Abiti puliti – ma per ora sono solo dichiarazioni. Si è parlato di aiuti sotto forma di protesi per i lavoratori infortunati, che non hanno nulla a che vedere con le condizioni di lavoro degli operai. Le aziende devono invece assumersi le loro responsabilità- aggiunge Lucchetti – perché se scelgono di produrre in quelle condizioni, scelgono anche di farlo sulla pelle delle persone, in condizioni di pericolo e con salari da fame. La posizione di Benetton è molto spiacevole, anche perché all’inizio aveva partecipato alle trattative per la costituzione del fondo, ma poi ha scelto di ritirarsi dal tavolo”. Lucchetti spiega che il Rana Plaza donor trust fund è un’iniziativa unica nel suo genere: il principio su cui si basa è il giusto risarcimento, calcolato in base ai parametri dell’Ilo (che ha fatto da supervisore all’accordo) sul mancato reddito percepito e sulle cure mediche affrontate, una parte delle risorse sono destinate, inoltre, ai familiari delle 1138 vittime accertate della tragedia. L’obiettivo è arrivare alla somma di 40 milioni di dollari: un traguardo ancora lungo da raggiungere, per ora infatti hanno versato la loro parte solo nove aziende (tra cui Mango, C& A, Camayeux e Primark), per un totale di 10milioni di dollari, ma quelle coinvolte sono ben 28 (di cui 3 italiane).
Insieme a Shila è giunta a Roma anche Safia Parvin del sindacato bangladese dei lavoratori tessili (National Garment workers federation) per ricordare i massacranti turni di lavoro a cui sono sottoposti, di giorno e di notte, gli operai che confezionano abiti per le multinazionali di tutto il mondo. Domani insieme ai rappresentanti della campagna Abiti puliti, incontrerà a Treviso i lavoratori e le Rsu di Benetton per sensibilizzare i colleghi sulle condizioni di sfruttamento in Bangladesh e avviare una lotta comune.
Nel corso della conferenza stampa Shila Begum ha ricordato tra le lacrime la tragedia di Rana Plaza. “Il giorno prima del crollo eravamo tutti davanti l’edificio a guardare le crepe che erano su tutti i muri – spiega- non volevamo entrare ma ci hanno rassicurato sulle condizioni di sicurezza. Poi è successo quello che tutti sapete: ho visto morire le mie colleghe e io sono viva per miracolo”. Intrappolata per un intero giorno sotto le macerie, la donna ha riportato infatti gravi danni a un braccio e ha dovuto subire un’ isterectomia. “Sono venuta fin qui con tanta speranza – afferma – ma soprattutto perché spero che anche in Italia qualcosa si muova. Quello che voglio è solo dare un futuro a mia figlia”. (ec)