Rapimenti, torture e stupri: quei viaggi terribili dalla Libia all'Italia
ROMA – L'orrore delle violenze subìte in Libia nelle testimonianze dei migranti: Amnesty International ne ha raccolte circa novanta nei centri d'accoglienza della Puglia e della Sicilia. Storie che parlano di abusi da parte di trasportatori, trafficanti, gruppi armati e bande criminali. "Questi migranti e rifugiati hanno raccontato l'orrore che sono stati costretti a subire in Libia: rapimenti, detenzione in carceri sotterranee per mesi, violenza sessuale, pestaggi, sfruttamento, uccisioni - ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice ad interim del programma Medio Oriente e Africa del nord di Amnesty International - . La loro testimonianza fornisce un quadro terrificante di ciò da cui chi arriva in Europa ha cercato disperatamente di fuggire. L'Unione europea e i governi su scala mondiale dovrebbero incrementare di gran lunga il numero dei reinsediamenti e dei visti umanitari in favore dei rifugiati più vulnerabili". Grazie all'assenza di legge e alla violenza che continuano ad affliggere il paese, lungo la rotta sud-nord, dal deserto ai porti del Mediterraneo, si è imposto un redditizio traffico di esseri umani.
Vittime della tratta di esseri umani. La maggior parte delle persone con cui Amnesty International ha parlato ha denunciato di essere stata vittima di tratta di esseri umani. I migranti e i rifugiati sono presi dai trafficanti appena entrati in Libia o vengono venduti alle bande criminali. "Quando arrivi in Libia, quello è il momento in cui inizia tutto, quando cominciano a picchiarti", ha raccontato Ahmed, 18 anni, proveniente dalla Somalia e arrivato in Libia nel novembre 2015 attraverso il Sudan. I trasportatori si rifiutavano di dare da bere e a volte sparavano a chi supplicava un goccio d'acqua, come è successo a un gruppo di siriani che stava morendo di sete. "Il primo siriano morto era un giovane, poteva avere 21 anni. Dopo ci hanno dato da bere ma nel frattempo era stato ucciso un altro siriano di 19 anni". Paolos, 24 anni, un eritreo arrivato in Libia nell'aprile 2016 attraverso Sudan e Ciad, ha raccontato che i trasportatori hanno abbandonato un disabile nel deserto, poco dopo essere entrati in Libia diretti a Sabha.
Violenze sessuali durante il viaggio. Amnesty International ha parlato con 15 donne, la maggior parte delle quali ha raccontato di aver temuto di subire violenza sessuale in ogni momento del viaggio verso la costa libica. Gli stupri sono talmente comuni che molte donne assumono contraccettivi prima di mettersi in viaggio, per evitare di rimanere incinte. La violenza è commessa dai trasportatori, dai trafficanti o dai gruppi armati, sia durante il viaggio che nella fase di attesa dell'imbarco verso l'Europa. Ramya, un'eritrea di 22 anni, è stata stuprata più di una volta dai trafficanti che la tenevano prigioniera in un campo nel nord-est della Libia, dove era entrata nel marzo 2015: "Dopo aver bevuto alcool e fumato hashish, le guardie entravano e sceglievano le donne. Poi le portavano fuori. Loro cercavano di opporsi ma quando hai una pistola puntata alla testa, non hai altra scelta se vuoi sopravvivere. Mi hanno stuprato due o tre volte. Non volevo perdere la vita".
Rapimenti ed estorsioni. Molti dei migranti e dei rifugiati incontrati da Amnesty International hanno raccontato di essere stati fatti prigionieri a scopo di riscatto. Erano tenuti in condizioni squallide, privati di cibo e acqua, picchiati, minacciati e insultati costantemente. Semre, 22 anni, eritreo, ha testimoniato di aver visto quattro persone morire di malattie e inedia durante la prigionia: "Nessuno li ha portati all'ospedale e alla fine li abbiamo dovuti seppellire noi stessi". Il padre di Semre ha fatto arrivare i soldi del riscatto ma i trafficanti, anziché liberarlo, lo hanno venduto a un'altra banda di criminali. Saleh, 20 anni, eritreo, è entrato in Libia nell'ottobre 2015. I trafficanti lo hanno immediatamente portato in un hangar nella zona di Bani Walid, dove è rimasto 10 giorni. In quel periodo, ha visto un uomo che non poteva pagare il riscatto sottoposto a scariche elettriche mentre era in una vasca d'acqua. "Ci minacciavano con la stessa fine".
Persecuzione religiosa da parte dei gruppi armati. L'ascesa, negli ultimi anni, di potenti gruppi armati ha aumentato i rischi nei confronti degli stranieri, soprattutto di quelli di religione cristiana. Amnesty International ha parlato con persone che sono state tenute sotto sequestro da tali potenze militari per molti mesi. Amal, 21 anni, eritrea, ha raccontato il rapimento del gruppo di 71 persone con cui viaggiava, ad opera di un gruppo ritenuto legato allo Stato islamico, nei pressi di Bengasi. Era il luglio 2015: "Hanno chiesto al trasportatore perché stesse aiutando dei cristiani. Lui ha risposto che non sapeva che fossimo cristiani e lo hanno lasciato andare. Poi ci hanno separato: hanno preso i cristiani e hanno portato noi donne a Tripoli, dove siamo state tenute per nove mesi in uno scantinato, senza mai vedere la luce del sole". Quando alla fine le donne sono state costrette a convertirsi, hanno subìto violenza sessuale. Gli uomini infatti le consideravano le loro "mogli" e le trattavano come schiave del sesso. In un altro caso risalente al 2015, Adam, un etiope di 28 anni che viveva a Bengasi con la moglie, è stato rapito dallo Stato islamico semplicemente perché era di religione cristiana: "Mi hanno tenuto in prigione per un mese e mezzo. Poi uno di loro si è sentito in colpa per il fatto che avevo una famiglia e mi ha aiutato a imparare a memoria il Corano in modo che mi avrebbero liberato".
"Percorsi sicuri e legali verso l'Europa" Il 28 giugno il Consiglio europeo ha approvato l'estensione per un ulteriore anno dell'operazione navale Sofia nel Mediterraneo centrale, mantenendo l'obiettivo di contrastare i trafficanti e aggiungendovi quelli della formazione e dello scambio di informazioni con la guardia costiera libica e del controllo sul rispetto dell'embargo sulle armi alla Libia. "L'Unione europea dovrebbe occuparsi meno di tenere migranti e rifugiati fuori dalle sue frontiere e concentrarsi maggiormente sulla messa a disposizione di percorsi legali e sicuri per coloro che sono intrappolati in Libia e cercano salvezza altrove. La priorità dev'essere quella di salvare vite umane e per farlo occorre destinare risorse laddove servano per impedire ulteriori tragedie", ha precisato Mughrabi.