Reato di clandestinità, "il vero obiettivo è eludere le norme Ue sui rimpatri"
ROMA - Il vero motivo per cui nel 2009 venne introdotto nel nostro ordinamento il reato di clandestinità era “cercare di eludere gli obblighi derivanti all’Italia dall’appartenenza all’Unione europea, e non certo pensare di rimpinguare le casse dello Stato con ammende stratosferiche che mai sarebbero state concretamente esatte, e, men che meno confidando nel loro effetto deterrente”. A sottolinearlo è Guido Savio, avvocato di Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. Dopo che il Governo, ha deciso di fare marcia indietro sull’annunciata depenalizzazione del reato, l’esperto di immigrazione ripercorre le tappe che hanno portato alla sua introduzione nell’ordinanemento italiano. “Si discute molto, in questi giorni, dell’opportunità di abrogare il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cittadini extracomunitari, ma le ragioni dei favorevoli e dei contrari sono spesso obnubilate da una diffusa disinformazione circa la reale natura di questo illecito, dei motivi per cui fu introdotto, e delle ragioni per cui il Parlamento deliberò di depenalizzarlo”.
La natura del reato di clandestinità. Introdotto con la legge n. 94 del 2009, nel Testo Unico delle norme sugli stranieri extracomunitari, l’art. 10 bis sanziona la condotta dello straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato irregolarmente. La sanzione è un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro: il reato è punito con la sola pena pecuniaria, per il quale non è possibile l’adozione di forme limitative della libertà personale, quali l’arresto o il fermo di polizia. “Che senso ha punire con una pena pecuniaria uno straniero irregolare che, proprio perché privo di permesso di soggiorno, non può accendere un conto corrente, non può essere assunto regolarmente, non può intestarsi beni immobili o mobili registrati?” si chiede Savio. Secondo l’esperto di Asgi, fu subito evidente che mai la Pubblica Amministrazione avrebbe intascato nemmeno un centesimo delle pene pecuniarie irrogate, anzi, ci avrebbe rimesso perché non avrebbe nemmeno recuperato le spese di giustizia che lo Stato anticipa per la celebrazione di un processo e che, dopo, cerca di recuperare dal condannato. Senza contare l’incidenza della rilevanza numerica di questa fattispecie negli uffici giudiziari, già oberati di cause pendenti. Ma anche sotto il profilo della deterrenza, l’efficacia è pari a zero. Nei sei anni di applicazione di questa norma gli ingressi illegali in Italia non sono affatto diminuiti, anzi.
Allora, perché è stato introdotto? Correva l’anno 2009, quando Roberto Maroni, ministro dell’interno e Angelino. Alfano, al dicastero della giustizia, idearono questo illecito, ricorda l’avvocato Asgi. Nel 2008 il Parlamento europeo ed il Consiglio adottarono una direttiva avente ad oggetto “Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, meglio nota come “Direttiva rimpatri”, il cui termine di recepimento negli ordinamenti interni degli Stati membri sarebbe scaduto il 24.12.2010. La direttiva – vincolante dopo la scadenza del termine di recepimento – prevedeva che le espulsioni degli stranieri fossero attuate ordinariamente in modo non coattivo, concedendo a chi doveva essere espulso un termine per la partenza volontaria, decorso invano il quale si poteva procedere all’allontanamento coatto. Per contro, il sistema espulsivo italiano, disegnato nel 2002 dalla Bossi-Fini, prevedeva ( e lo prevede sostanzialmente ancora oggi) che tutte le espulsioni fossero eseguite immediatamente dalla Polizia con l’accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero da espellere, insomma l’esatto contrario delle norme europee”. Il Governo italiano dell’epoca “non era particolarmente entusiasta all’idea di doversi adeguare alla normativa sovranazionale – spiega -Fu così che l’allora Ministro Maroni ebbe la (in)felice intuizione da cui si deve la genesi del reato di cui ora tanto si discetta. Poiché la direttiva europea consentiva agli Stati membri di derogare all’obbligo di concedere un termine per la partenza volontaria, tra l’altro, anche nei casi in cui l’espulsione fosse stata disposta come sanzione penale o in conseguenza della stessa, il Governo decise di “inventare” il reato di ingresso e soggiorno illegale, sanzionandolo con una sanzione pecuniaria, ma prevedendo che il giudice (nella specie quello di pace) potesse sostituire l’ammenda con l’espulsione, a titolo di sanzione sostitutiva della stessa pena pecuniaria. In tal modo l’espulsione sarebbe stata conseguente ad una sanzione penale e, conseguentemente, si sarebbe potuta aggirare la direttiva rimpatri non applicandola, nel pieno rispetto formale della direttiva stessa. Insomma, una tipica soluzione “all’italiana”. Questa fu il vero motivo per cui nel 2009 venne introdotto nel nostro ordinamento questo reato: cercare di eludere gli obblighi derivanti all’Italia dall’appartenenza all’Unione europea, e non certo pensare di rimpinguare le casse dello Stato con ammende stratosferiche che mai sarebbero state concretamente esatte, e, men che meno confidando nel loro effetto deterrente.
Un flop. Questa “sorta di truffa delle etichette” però non ha funzionato. “E’ necessario aggiungere un elemento di conoscenza per ben comprendere l’evoluzione delle cose. Non tutti sanno che, parallelamente alla denuncia per il reato di clandestinità, lo straniero che viene sorpreso in condizione irregolare sul territorio italiano, di norma deve essere obbligatoriamente espulso in via amministrativa dal prefetto. Dal momento dell’accertamento dell’irregolarità partono due procedimenti paralleli, entrambi volti all’allontanamento dall’Italia: quello penale e quello amministrativo, è una sorta di gara dove vince chi arriva primo – spiega ancora Savio -. Infatti, se nelle more dello svolgimento del processo penale l’Amministrazione esegue l’espulsione coattivamente, il giudice del procedimento penale emette una sentenza con cui dichiara che l’azione penale è diventata improcedibile, perché lo Stato non ha più alcun interesse a condannare al pagamento di un’ammenda – a sua volta convertibile in espulsione – uno straniero che già è stato allontanato dall’Italia. Se, viceversa, all’atto della celebrazione del processo per il reato di clandestinità non si ha notizia dell’avvenuta espulsione dell’imputato, si prosegue e – in caso di condanna – il giudice irroga la pena pecuniaria, che può essere sostituita dall’espulsione disposta dello stesso giudice. Così lo straniero, che nel frattempo è uccel di bosco fa collezione di espulsioni: quella amministrativa del prefetto e quella del giudice di pace.
Oggi, secondo Savio, i nodi vengono al pettine. “E’ ovvio che il ministro dell’interno, che nel 2009 era ministro della giustizia, non possa sconfessare a cuor leggero quel che sei anni or sono propugnava e approvava con convinzione. L’onestà intellettuale fa spesso a pugni con le contingenze politiche del momento. Ma chi ha fatto credere all’opinione pubblica che quel reato costituisse un utile strumento di contrasto all’immigrazione irregolare, pur sapendo benissimo che altro era lo scopo? Chi ha scelto di accalappiare il consenso popolare alimentando le paure dell’invasione e suggerendo rimedi del tutto inutili e controproducenti? Chi ha propagato per anni con forza l’idea che fenomeni sociali epocali potessero essere governati seriamente con gli strumenti della repressione penale?". Il risultato è che "nessuno risponde politicamente, prigionieri come siamo di fragili equilibri, per cui mentre il mondo cade a pezzi e i singoli Stati dell’Unione si chiudono a riccio, qui da noi ci si arrovella se sia politicamente opportuno mantenere in vigore un reato inutile". (ec)