Reddito di cittadinanza. Zamagni: “Bene aiutare i poveri, ma bastava potenziare il Rei”
BOLOGNA - “L'espressione reddito di cittadinanza è concettualmente sbagliata, è un nonsenso, perché il reddito spetta a chi ha svolto un lavoro”. Parte da una critica lessicale l'appunto che Stefano Zamagni, docente di Economia politica, muove al provvedimento contenuto nel decreto legge “Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni”, ancora in stato di bozza ma ormai giunto a una formulazione quasi definitiva. Secondo il professore, sarebbe stato meglio chiamarlo “sussidio o aiuto di cittadinanza”. L'obiettivo di aiutare chi si è venuto a trovare senza lavoro è giusto, ma il mezzo è sbagliato. Zamagni segna con la matita rossa un errore che definisce di neomachiavellismo, perché, il fine giusto non giustifica il mezzo con cui lo si vuole perseguire. “Questo è un provvedimento che va inserito nei programmi di welfare avanzati, non nei programmi di lavoro”. Tanto più che, secondo il docente, la misura di sostegno alla povertà esisteva già, era il Reddito di inclusione, e casomai andava potenziata nella sua dotazione economica. Un provvedimento per assicurare l'accesso al lavoro avrebbe dovuto chiamarsi “Lavoro di cittadinanza”: “È un concetto inscritto nella Costituzione – sottolinea Zamagni -, sarebbe bastato aggrapparsi all'articolo 1, nessuno avrebbe potuto dire niente. Hanno perso un'occasione”.
Quanto alle probabilità di successo, lo studioso ritiene siano molto basse, “indipendentemente dall'intenzione sacrosanta di aiutare i poveri – aggiunge – perché questa esiste, al di là del fatto che in Italia alcuni soffrono di aporofobia, una parola del greco antico che vuol dire paura dei poveri”. “Ma il fine non giustifica i mezzi”, insiste Zamagni, e indica tre ragioni per le quali il mezzo in questione – il reddito di cittadinanza (o pensione di cittadinanza per gli over 65) - non permetterà di raggiungere il fine, pure condivisibile (aiutare i poveri): primo per le coperture finanziarie; secondo perché i centri per l'impiego oggi non hanno la funzione imprenditoriale che considera necessaria allo scopo (“Servirebbero cacciatori di teste che cercano le imprese disposte ad assumere chi cerca lavoro – esplicita il docente -. Non si può acquisire l'imprenditorialità per norma di legge, servirebbero mesi per formare il personale in questo senso”); terzo perché nei processi produttivi le imprese cercano profili professionali capaci di intercettare le novità della quarta rivoluzione industriale. “Più facile da dire che da attuare. Cosa se ne fa l'impresa di persone che non sanno parlare i linguaggi dell'intelligenza artificiale, del massive learning?”, chiarisce l'economista, convinto che per reinserire le persone nel mondo del lavoro oggi sia indispensabile formarle adeguatamente, con l'obiettivo di farle rientrare a un livello più alto di quello in cui si trovavamo precedentemente, anche attraverso corsi della durata annuale corredati da esame conclusivo per accertare le abilità acquisite.
“Dei 4 milioni a cui è destinata la misura, solo una parte trarrà beneficio e non al livello a cui si mirava. Alla fine molti si troveranno di nuovo senza niente, con l'aggravante che avranno perso un anno e mezzo. Questa è la loro preoccupazione, le persone che si trovano in quella situazione me lo dicono”, aggiunge Zamagni, che indica come buona la pista tracciata a Bologna da Insieme per il lavoro, un progetto per “l'inserimento nel mondo del lavoro di persone scarsamente autonome nella ricerca di occupazione”, nato da una collaborazione tra il Comune e l'Arcidiocesi. “In Italia bisogna avviare un progetto globale di riqualificazione del lavoro per gli ultra quarantenni – conclude Zamagni -, si deve agire sulle mappe cognitive. Altrimenti si darà loro l'illusione di poter entrare nel mercato del lavoro. Ma quando questo non accadrà, avranno una frustrazione in più”. (Benedetta Aledda)