20 giugno 2015 ore: 10:24
Immigrazione

Richiedenti asilo in appartamento: il modello Trieste. "Costa meno e funziona"

Lontano da telecamere e palazzi di governo, la città sta sperimentando un’accoglienza di successo. Centri temporanei per brevissimo tempo, poi in casa affittate dai privati. Schiavone (Asgi): “Investi su un percorso di normalità dà i suoi frutti”
Profughi in gruppo

ROMA - E’ l’estremo confine orientale dell’Italia, luogo di passaggio, storico crocevia di culture e anche di migrazioni. A Trieste la parola “emergenza” sul tema immigrazione è poco utilizzata: i richiedenti asilo vivono in appartamenti diffusi in tutta la città, con costi minori di una gestione emergenziale e una capacità amministrativa che negli ultimi tre anni ha fatto sì che si potesse rispondere ad un aumento di oltre il 300 per cento dei migranti da accogliere. Un sistema unico di accoglienza, integrato e con uguaglianza di trattamento per tutti i beneficiari: in poche parole, un laboratorio a cielo aperto, lontano dalle telecamere e dai palazzi di governo che, secondo Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) è ora di portare alla luce e, perché no, replicare su tutto il territorio nazionale. “Certo la città ha caratteristiche che sicuramente hanno favorito questa sperimentazione – racconta -, ma sarebbe sbagliato pensare che si tratti di qualcosa di assolutamente non ripetibile. Trieste ha tutte le caratteristiche di una città italiana di media grandezza, con i suoi aspetti negativi e positivi”.

I numeri. Trieste aderisce al sistema Sprar dal 2002 e sul territorio ha una capacità di accoglienza legata a questa rete di 119 posti. Lo Sprar, però, rappresenta solo il 15,8 per cento dei posti messi a disposizione dei richiedenti. La gran parte dell’accoglienza avviene in posti “extra Sprar”, gestiti sempre dal Comune insieme agli enti gestori, che secondo Schiavone, di diverso hanno solo l’”extra”. Proprio questa seconda tipologia di accoglienza ha visto triplicare negli ultimi tre anni le presenze: se nel dicembre 2013 erano 202 gli accolti, a giugno 2015 sono 638. Come porta d’ingresso a nord est, Trieste ha richiedenti che arrivano da 19 paesi, di cui l’83 per cento provenienti da Afghanistan e Pakistan. Tuttavia non sono mancati gli arrivi provenienti dagli sbarchi: 590 negli ultimi due anni. Anche qui, inoltre, ci sono i cosiddetti “transitanti”, ma non è chiaro quanti siano. “C’è un passaggio via terra che è in buona parte non visibile – racconta Schiavone -. Su questo il ministero non ha mai voluto fornire dati in maniera trasparente”.
Sono tanti, però, quelli che restano. “Le persone che hanno fatto la rotta balcanica hanno una percezione dell’arrivo in Italia mediamente positiva, perché fortemente impressionati da quello che hanno vissuto in paesi di transito come la Bulgaria e l’Ungheria. Per molti è un arrivo definitivo. Non è vero che siamo solo un paese di transito. Nel Friuli Venezia Giulia, probabilmente ci sono più ingressi destinati a rimanere che non a transitare”.

Accoglienza in appartamento. Nonostante non manchino alcune strutture temporanee (due alberghi e alcuni residence) e la disponibilità del Comune di gestire un hub sul proprio territorio, l’accoglienza a Trieste punta a trasferire i richiedenti in appartamenti il più presto possibile. È il modello dell’accoglienza diffusa che ad oggi nella città fa contare ben 42 appartamenti utilizzati in 11 diverse strutture. Appartamenti destinati non solo all’accoglienza Sprar (che può contare su 26 appartamenti gestiti dal Consorzio Italiano di Solidarietà e Caritas), ma anche all’extra Sprar. “Si tratta di appartamenti reperiti in locazione privata sul mercato – spiega Schiavone -. Cioè presi in affitto. Solo nel sistema Sprar ci sono degli appartamenti del comune. Nel sistema extra Sprar ci sono due appartamenti dati dall’azienda sanitaria in comodato gratuito. Tutto il resto è preso in locazione sul mercato privato”.

L’ordinarietà che vince sull’emergenza. Secondo quanto racconta Schiavone, non è stato difficile trovare appartamenti da prendere in affitto per destinarli all’accoglienza, come si potrebbe immaginare. “Le persone hanno capito che in realtà è un affitto sicuro – spiega -, la casa è seguita e abbiamo perfino avuto diverse proposte di locazione”. La sfida è quella di impostare l’accoglienza su un requisito: “l’ordinarietà”, aggiunge. Negli appartamenti, spiega Schiavone, ci sono circa 4 o 5 persone.
“E’ la classica casa due stanze, cucina e bagno di un qualsiasi condominio. Distribuiti il più possibile in modo da coprire il più possibile tutti i quartieri”. In ogni appartamento sono gli stessi richiedenti a provvedere alla preparazione dei pasti e alle pulizie, ma non sono lasciati soli. “Ci sono gli operatori sociali, mediamente uno ogni 10 o 12 persone – sottolinea Schiavone -. Un operatore in media segue due appartamenti ed è responsabile della gestione dell’appartamento in cui si reca anche tutti i giorni. Non è un controllo, è un punto di riferimento per i richiedenti asilo accolti”.

Costi più bassi. Nonostante caparre, utenze, un fondo rischi per possibili imprevisti e i piccoli lavori di adeguamento degli appartamenti, per Schiavone, il modello Trieste è complessivamente “un meccanismo che fa abbassare i costi dell’accoglienza – spiega -. Niente catering, niente operatori notturni, niente guardiani. Ci sono spese che non hanno nulla a che fare con la qualità dell’accoglienza, ma che in realtà ci sono, che qui scompaiono. Costa meno di un approccio emergenziale o può costare uguale con un maggior servizio. I soldi non vengono risparmiati, ma vengono utilizzati per aumentare le attività”.

Una questione di prospettive. Stando a questi numeri, mentre in tutt’Italia si discute su come impostare l’accoglienza dei richiedenti asilo, quello di Trieste è un modello. Vincente perché sa guardare al futuro senza sperare in un ritorno ad un passato che non c’è più. “E’ la normalità a generare normalità – racconta Schiavone -. Il pensiero che ha mosso tutto questo è che i rifugiati non sono un’emergenza, ma una situazione nuova per l’Italia, alla quale bisogna dare una risposta in termini strutturali di inserimento dentro un programma di carattere sociale della loro presenza”.
Per Schiavone, l’intuizione triestina è stata quella di far rientrare i richiedenti asilo nell’intero sistema dei servizi. “Ovunque c’è ancora questa sottaciuta idea di fondo che magari un giorno si potrà chiudere tutto e tornare a prima – spiega -. La realtà è che il prima è proprio passato. Il comune di Trieste ha concepito il tutto come una parte del servizio erogato ad una fetta di popolazione che è cresciuta. L’emergenza non è stata percepita come tale, ma come cambiamento. Si è deciso di investire, nei limiti del possibile, nell’ottica della certezza che gli appartamenti presi in questi ultimi due anni sono parte di un allargamento dell’ordinario. Se lo concepisci così investi su un percorso di normalità che dà i suoi frutti”.

Un modello da esportare. Oltre alle caratteristiche dell’accoglienza per i richiedenti asilo messa in piedi a Trieste, stupisce la rapidità di come sia stata impostata. L’extra Sprar, infatti, è passata dalle 200 persone circa alle 300 della fine del 2014 per poi raddoppiare in un solo anno. “Non è vero che per venire incontro ai cambiamenti rapidi bisogna fare strutture o programmi di emergenza – spiega Schiavone -. A volte servono all’inizio. In Italia l’emergenza è sempre tale. Se il Comune di Trieste ha triplicato i posti oltre il numero dei richiedenti asilo, pensiamo ad immaginare un adeguamento di questo tipo su tutti i territori: oggi tutti sarebbero sistemati e questa bolla mediatica in cui siamo immersi non ci sarebbe”. (ga)

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