Rifugiati, da Addis Abeba a Roma: “Il nostro primo viaggio sicuro”
Sfilano ad uno ad uno davanti alla polizia di frontiera che li aspetta per l’intervista in cui dovranno formalizzare la loro domanda d’asilo nel nostro paese. Ma per prima cosa abbracciano chi li ha accompagnati, passo dopo passo, fin qui: Olivero Forti, Daniele Albanese e Giovanna Cobatto di Caritas italiana e Alganesh Fessah, o “doctor Alganesh”, come la chiamano tutti, la presidente della Fondazione Gandhi e attivista eritrea, nota per la sua battaglia per i diritti umani, al fianco dei connazionali perseguitati in patria. “Non ci credo ancora - mi dice commosso in un perfetto italiano, Mehari Haile, 27 anni, eritreo -. Ieri sera mentre ci stavamo imbarcando continuavo a chiedermi se stava succedendo davvero o se fosse solo un sogno”. Non ha dormito per tutta la notte, confessa, per l’emozione di quel viaggio atteso da una vita.Arrivate ora a Roma le 71 persone beneficiarie del corridoio umanitario dal corno d’Africa. Sono quasi tutti eritrei. Da oggi iniziano la loro nuova vita in Italia. #corridoiumanitari @CaritasItaliana @santegidionews pic.twitter.com/Ps5g0alxtk
— Eleonora Camilli (@EleonoraCamilli) November 29, 2019
Per tutti è stato il primo viaggio in aereo, ma soprattutto il primo viaggio “normale”, con un documento regolare. Arrivati all’aeroporto di Addis Abeba si sono confusi tra i viaggiatori di quello che è uno degli hub più importanti del centro Africa. E così, tra le migliaia di turisti che tornavano dalle vacanze, i cooperanti delle tante ong che operano nel continente e gli uomini d’affari, hanno potuto compiere azioni banali ma per loro straordinarie: come fare un chek-in, tornare indietro ai controlli di sicurezza solo per non aver tolto la cintura dai pantaloni, prendere una scala mobile, riempire i carrelli di valigie in cui hanno stipato i pezzi di una vita. C’è chi ha messo nel bagaglio spezie e cibo, chi gira per l’aeroporto con il quadro che incornicia il giorno del suo matrimonio, chi si è portato dietro la macchina per fare l’enjera, il piatto base della cucina etiope ed eritrea. E poi chi ha infilato all’ultimo momento i doni portati dagli amici e i parenti più cari, venuti a dargli l’ultimo abbraccio fuori dall’aeroporto.
Nessuno ha ancora un vero e proprio passaporto, ma con il progetto dei corridoi umanitari tutti hanno ottenuto un emergency travel document, un visto umanitario a validità limitata, che è stato ritirato questa mattina a Fiumicino, quando hanno formalizzato la domanda d’asilo nel nostro paese. Ora sono stati tutti trasferiti nel centro di accoglienza di Rocca di Papa, alle porte di Roma, dove resteranno per due giorni. Poi da lunedì sono previste le partenze nelle diocesi di tutta Italia che hanno dato disponibilità all’accoglienza. Shirine, 9 anni, è partita con sciarpa, guanti e cappello di lana, nonostante i 26 gradi di Addis Abeba. La sua destinazione è Torino, Yoanna e i suoi due fratellini minorenni andranno ad Aosta, Mehari a Brescia, altri a Pescara, Siena, Assisi. Ognuno di loro sarà seguito dalle famiglie tutor che nei territori di destinazioni li aiuteranno nel difficile percorso di integrazione, almeno per un anno.
“Questo è l’unico corridoio umanitario dall’Africa - spiega Daniele Albanese - La maggior parte dei beneficiari sono eritrei perché nel paese continua la diaspora e il movimento di persone, specialmente dopo la pace con l’Etiopia l’afflusso è diventato enorme perché si sono aperti i confini. Fuori e dentro i campi alla frontiera ci sono anche tanti trafficanti che chiedono cinque o seimila euro a persona per arrivare in Europa. La rotta più battuta è quella verso la Libia. Quello che tentiamo di fare noi è offrire una testimonianza virtuosa che vorremmo diventasse sistema - aggiunge -. Selezioniamo le persone partendo da una lista delle Nazioni Unite, li incontriamo tutti, ne conosciamo la storia. Il secondo step è il matching con le comunità di accoglienza in Italia, che accompagnano poi i rifugiati verso l’integrazione. E’ il progetto con il tasso di abbandono più basso”. In tutto saranno 500 i beneficiari del progetto dal Corno d’Africa in due anni. “Nessuno ha la presunzione di risolvere i grandi problemi dell’immigrazione con i corridoi umanitari: il nostro obiettivo è mandare un messaggio chiaro, vogliamo cambiare la narrativa per cambiare anche le politiche - aggiunge Oliviero Forti -. Vogliamo spingere, cioè, le istituzioni e i governi a impegnarsi realmente a realizzare vie sicure e legali, perché le persone non debbano più tentare altre rotte, che mettono a rischio la vita di migliaia di persone come quella del Mediterraneo centrale”.
Tra le persone arrivate questa mattina anche parte della famiglia di padre Mussie Zerai, presidente dell’associazione Habeshia e noto per la sua attività di soccorso in mare. “Non li vedevo da sedici anni - dice emozionato padre Zerai, riabbracciando finalmente i suoi cari -. Mia nipote aveva pochi mesi, ora è una ragazza. Questo deve essere il modo corretto di arrivare in Europa e accogliere chi ha bisogno di protezione, in totale dignità e umanità. E soprattutto evitando alle persone di rischiare la vita in mare o in Libia - afferma -. Sarebbe ora di creare corridoi umanitari europei: bisogna far prevalere l’umanità delle politiche mettendo la dignità delle persone al centro. Far venire le persone legalmente costa meno, in termini economici e in termini di vite umane. Ma anche in termini di sicurezza”. “Questa è una delle vie per salvare la vita alle persone dalla morte in mare o nel deserto, per strapparle dalla mano dei trafficanti di uomini e di organi - sottolinea Alganesh Fessah. La sua fondazione, la Ghandi Charity, si occupa di 1450 bambini tra i 3 e i 6 anni che vivono nei campi al confine tra Eritrea ed Etiopia, assicurando loro almeno un pasto al giorno -. In Eritrea finora non è cambiato niente, il regime è sempre lo stesso, il servizio militare dura tutta la vita, i ragazzi scappano perché non possono sposarsi, lavorare o crearsi qualsiasi forma di futuro. Manca il rispetto dei diritti umani, la pace per ora è solo una pace formale. Intanto le persone continuano ad andare via rischiando tutto. Bisogna impegnarsi per fermare lo stillicidio di queste giovani persone africane”.