Rifugiati, in Piemonte 700 nuovi arrivi. Malcontento anche tra le associazioni
TORINO - I primi duecento sono appena arrivati, sistemati nel centro polifunzionale “Fenoglio” della Croce rossa di Settimo Torinese. Ma in totale sono 700 i profughi che il Piemonte accoglierà nelle prossime settimane, in seguito alla nuova ondata di sbarchi che, nella sola giornata di ieri, ha lasciato altri 400 cadaveri sul fondo del Mediterraneo. Stando a quanto dichiarato dall’assessora regionale all’immigrazione Monica Cerutti, dovrebbe rimanere in vigore la medesima ripartizione territoriale già adottata da almeno un anno a questa parte: il 40 per cento degli arrivi, cioè, verrà destinato a Torino e provincia, mentre l’altro 60 verrà smistato nel resto del territorio regionale. “Al momento - spiega Cerutti - non è ancora chiaro se si parli di migranti che si trovano già sul suolo italiano; ma è possibile che le assegnazioni siano state calcolate sulla base di una previsione di nuovi arrivi che ormai sono praticamente certi. Noi questo non possiamo saperlo con certezza, perché a occuparsi delle accoglienza, in questo caso, saranno le Prefetture. Ma è molto probabile che le assegnazioni andranno riviste, perché i nuovi sbarchi potrebbero essere molto consistenti”.
Intanto, in regione è già esplosa la polemica. A Torino, la Lega si dice pronta “a occupare scuole, alberghi e caserme”, nel caso in cui vengano messi a disposizione di nuovi profughi. “Non ci risulta che ai torinesi in difficoltà vengano spalancate le porte degli alberghi - ha dichiarato ieri il segretario provinciale Alessandro Benvenuto - e non vediamo per quale ragione questo debba esser fatto per chi entra nel paese su un barcone”.
Ma non è solo tra i banchi del centrodestra che fermentano le polemiche. Dei nuovi 700 arrivi, cento potrebbero essere assorbiti dalla rete di associazioni ed enti gestori che hanno presentato progetti nell’ambito della rete Sprar. Ma anche tra queste ultime, inizia a covare il malcontento per la logica puramente emergenziale con cui l’accoglienza viene gestita dalle prefetture. Il primo “niet” è arrivato dalla cooperativa “Progetto tenda”, una delle più attive nell’accoglienza dei rifugiati a Torino; la cui direttrice, Cristina Avonto, ricopre anche la carica di Coordinatrice del gruppo regionale sull’Immigrazione di Confcooperative. “Alla Prefettura - spiega Avonto - abbiamo chiesto chiaramente di non prenderci più in considerazione. E questo perché crediamo sia giunto il momento di dissociarsi dal sistema di accoglienza gestito dalle Prefetture, che opera secondo un’ottica ‘alberghiera’, senza un minimo di progettualità per quanto riguarda l’integrazione e la socializzazione dei richiedenti asilo”.
Secondo Avonto “l’accoglienza gestita dalle Prefetture sta diventando un grande parcheggio. I rifugiati vengono spediti in strutture d’alta montagna, senza contatti umani di sorta, e senza il supporto di educatori e operatori. Oggi le commissioni impiegano fino a due anni per ascoltare i richiedenti, e la percentuale di dinieghi si attesta sul 90 per cento. Ciò significa che 90 richiedenti su 100, dopo aver trascorso mesi in un limbo di apatia, si ritrovano allo sbando. Con un enorme spreco di risorse statali, che andrebbero utilizzate per politiche d’integrazione più mirate ed efficaci”. Questo stato di cose, però, sarebbe imputabile proprio alla disorganizzazione del sistema: “storicamente - continua Avonto - i rifugiati politici, ovvero coloro che riescono a dimostrare una persecuzione individuale nei propri confronti, sono sempre stati il 10 per cento dei richiedenti. A questi, poi, si vanno a sommare quanti fuggono dai paesi in guerra, ai quali viene assegnato un permesso temporaneo per ragioni umanitarie. Il punto è che l’esame di queste domande andrebbe differito: ma oggi vengono messe tutte nello stesso calderone, creando di fatto un collo di bottiglia. Che senso ha che un richiedente siriano aspetti 18 mesi per ottenere un permesso umanitario?”
È per questo che, secondo Avonto, “i migranti economici finiscono per mescolarsi ai richiedenti asilo: è la disorganizzazione strutturale del sistema a incoraggiarli. Proprio grazie alle lungaggini delle commissioni, richiedendo asilo si garantiscono fino a due anni di permanenza nel paese. Nella nostra struttura ci sono donne che hanno visto i loro figli bruciati vivi dai regimi dell’africa sub sahariana, o ragazzi che in carcere sono stati torturati fino alla mutilazione; che convivono con chi invece fugge dai monti del Pakistan perché non ha più fonti di reddito. È ovvio che situazioni di questo tipo non sono assimilabili”. Almeno in Piemonte, però, qualcosa inizierebbe a muoversi in questo senso. Le prefetture di Cuneo e di Biella, ad esempio, starebbero valutando l’eventualità di inserire degli obiettivi minimi di integrazione obbligatori per quanti si candidano all’accoglienza. E sul territorio regionale, sempre secondo Avonto “molte associazioni, inclusa la nostra, stanno cercando di far confluire anche questi nuovi arrivi nella rete dello Sprar; che, pur con le sue carenze, è certamente pià strutturata.”
“Il problema - conclude - è che, mediamente, politiche d’integrazione davvero efficaci lavorano su cicli che vanno dai cinque ai dieci anni. E per i tempi della politica, quindi, sono ritenuti sconvenienti. In termini di consenso, la nostra classe politica oggi non è incentivata a lavorare in questo senso. Le risorse ormai confluiscono tutte sull’emergenza umanitaria, e negli ultimi anni il capitolo di spesa relativo alle politiche migratorie è sceso a zero”. (ams)