Ristretti Orizzonti: “Il carcere non lavora sulla mediazione e ostacola gli affetti"
PADOVA – Raggiungere la verità e cercare la riconciliazione è possibile, ma ancora difficile. I fatti vengono stravolti, oppressi dai pregiudizi, nascosti da una cortina di fumo. La voglia di vendetta e repressione ostacolano un percorso possibile di mediazione. Di questo si è parlato questa mattina a Padova, nel corso dell’annuale giornata nazionale di studi organizzata da Ristretti Orizzonti a Padova, nella casa di reclusione Due Palazzi.
Si è parlato di verità mai raggiunte, come quella su Piazza Fontana. “Non mi interessa la vendetta - ha sottolineato Claudio Arnoldi, presidente dell’associazione che riunisce i familiari delle vittime -. La verità storica su Piazza Fontana esiste, noi la vogliamo portare avanti, perciò andiamo nelle scuole e nelle università a raccontarla”. E si è riflettuto su quelle verità che nessuno sopporta, che infastidiscono e spaventano, che nessuno vuole raccontare. “La verità è un racconto. Se si cambia il racconto si cambiano i fatti” ha commentato Bianca Stancanelli, autrice del libro “La vergogna e la fortuna”, che raccoglie 21 storie di Rom. E ha aggiunto: “La verità dei fatti è un’illusione: l’identità dell’altro è decisiva per definire i fatti. Einstein diceva che è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio. Noi dobbiamo strenuamente cercare di disintegrare il pregiudizio micidiale sui rom”.
La strada per la riconciliazione, invece, inizia dall’ascolto della sofferenza altrui: “Prima si deve arrivare alla consapevolezza del male che si è fatto” ha ammesso Qamar, detenuto al Due Palazzi. “Io pagherò il debito con lo Stato – ha aggiunto -, ma l’omicidio che ho commesso mi resterà sempre dentro, come una piaga. Con il mio gesto ho condannato alla sofferenza la famiglia di chi ho ucciso e anche la mia”. Ed è stata proprio la famiglia, quella della vittima ma anche quella dell’autore di reato, al centro dei pensieri dei detenuti e dei relatori. “La prima riconciliazione è quella con la famiglia – ha spiegato Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti -. Ma il carcere lascia pochissimo spazio agli affetti. Se si vuole parlare di umanizzazione delle carceri si deve fare qualcosa di più per le famiglie, che non hanno alcuna colpa. Mi domando perché la mediazione non sia un terreno su cui il carcere lavora”. Che il percorso sia possibile lo hanno raccontato due donne unite dal proprio dolore. Claudia Francardi, vedova del carabiniere Antonio Santarelli, che durante un posto di blocco è stato colpito alla testa da un diciannovenne ed è morto dopo oltre un anno di coma. E Irene Sisi, la madre del ragazzo che l’ha ucciso. Insieme hanno fondato un’associazione. (gig)