Sardegna/3. La forza della fragilità
OZIERI – La concezione della disabilità ha subito negli ultimi vent’anni un vero ribaltamento di prospettiva, che ancora però non è stato completamente interiorizzato dai giornalisti, che nonostante evidenti progressi rischiano ancora di cadere, nella loro professione quotidiana, in scivoloni linguistici e concettuali. Anche se la gran parte di essi avviene in buona fede, è essenziale progredire l’opera di formazione sul tema: da qui la proposta di dedicare un capitolo specifico del Codice deontologico dei giornalisti alla comunicazione relativa alle persone con disabilità, affrontata già nel documento, denominato “Carta di Olbia”, e redatto da Giulia giornaliste con l’Ordine dei giornalisti Sardegna, in collaborazione con le associazioni Sensibilmente Odv e UILDM Sassari.
E’ stato Ozieri il teatro del terzo seminario del ciclo “Raccontare il territorio” dal titolo “La forza della fragilità”, organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Sardegna, dall’Agenzia Redattore Sociale e dalla Delegazione regionale Caritas Sardegna, in collaborazione con l’UCSI Sardegna. Nel salone Don Salis, gremito di persone, si è dato voce alle tante iniziative che nel territorio valorizzano e mettono in luce chi opera nel mondo della disabilità e si è riflettuto sul linguaggio più corretto da utilizzare per raccontare questo tema.
Ad aprire i lavori, coordinati dal presidente dell’ODG Sardegna Francesco Birocchi, l’assessora alla Sanità, Politiche sociali, Pari opportunità e Politiche giovanili del comune di Ozieri, Margherita Molinu, che ha ricordato l’impegno dell’amministrazione e dei servizi sociali per la presa in carico delle persone con disabilità e delle loro famiglie: “Il Centro di servizio alla disabilità nato nel 2015 – ha ricordato – si opera per aiutare circa 250 persone, la gran parte di età fra i 50 e i 70 anni, con l’ausilio di una rete di professionisti del settore, associazioni di volontariato e Caritas diocesana.
Dopo i saluti di Andrea Pala (Ucsi) e Maria Chiara Cugusi (Caritas Sardegna), il direttore di Redattore Sociale, Stefano Caredda, ha sottolineato la cronica carenza di dati statistici che riguardano le persone con disabilità, dovuta a difficoltà metodologiche nella raccolta e nell’attendibilità del dato stesso. Un’assenza a cui si sta cercando di ovviare con il nuovo Registro delle disabilità che dovrebbe presto fornire un quadro più puntuale, tale da porsi come base per l’elaborazione di politiche pubbliche adeguate.
La rivoluzione culturale: come è cambiata in pochi anni la disabilità
A livello internazionale, ha sottolineato Caredda, il dibattito che si è sviluppato nel corso degli ultimi 20 anni ha determinato un profondo rinnovamento degli strumenti concettuali e di misurazione statistica del fenomeno: un nuovo paradigma ha preso corpo con sempre maggiore chiarezza fino ad essere formalizzato dalla comunità scientifica nella nuova classificazione internazionale sulla salute e la disabilità, l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). La disabilità è non più concepita solamente come una riduzione delle capacità funzionali determinata da una malattia o menomazione, ma come la risultante di una interazione tra condizioni di salute e fattori contestuali (personali e ambientali). In seguito, una Convenzione Onu, firmata nel 2006 e ratificata nel 2009 anche dal nostro Paese, ha recepito tale rinnovamento culturale, declinandone i principi attraverso l’identificazione dei diritti soggettivi delle persone con disabilità e fornendo indicazioni per le politiche e gli interventi finalizzati al perfezionamento di questi diritti.
Illustrando poi l’evoluzione della concezione della disabilità anche a partire dai simboli grafici che la identificano, il direttore di Redattore Sociale ha ricordato che le principali tendenze del giornalismo in tema di disabilità, l’importanza delle figure degli attivisti e la frequenza con la quale la persona con disabilità viene alla ribalta mediatica esclusivamente in quanto disabile. Non sempre accade cioè che sia riconosciuto in virtù di una capacità, di una professionalità, di una competenza che nulla ha a che fare con la sua disabilità. E se questo accade con personaggi famosi, meno intuitivo è che accada quando si parla di una persona normale: “La disabilità – ha sottolineato Caredda - non esaurisce mai l’essenza di una persona: nel nostro lavoro di informazione, che è anche un lavoro di fotografia della realtà e di cambiamento della realtà, impariamo ad avere questa accortezza, a non ridurre mai la persona alla sua disabilità”.
La Carta di Olbia: un aiuto per i giornalisti
Un quadro generale che è stato completato dagli interventi di Caterina De Roberto, vice coordinatrice di “Giulia Giornaliste Sardegna” e Francesca Arcadu “vice presidente Uildm Sassari, entrambe protagoniste del lavoro che nel 2019, ad Olbia, ha portato alla predisposizione di quella Carta deontologica che si vorrebbe entrasse a far parte ufficialmente della Carta dei doveri del giornalista.
De Roberto ha ricordato come la narrazione delle persone con disabilità sui media sia stata spesso caratterizzata dagli estremi del “supereroe” da esaltare o della “vittima” da compatire: “Sono i media generalisti che formano il linguaggio, e seppur in perfetta buona fede ancora oggi molti colleghi cadono nel tranello di una comunicazione che non mette al centro la persona nella sua interezza ma la disabilità. Per questo riteniamo che una Carta possa essere uno strumento efficace perché possa diventare a pieno titolo parte del codice deontologico dei giornalisti”. Le persone con disabilità – ha rimarcato - sono oggetto di discorsi d’odio (è la seconda categoria più colpita, dopo le donne), ma il ritardo è sulla stessa garanzia al diritto all’informazione, che porta con sé l’accessibilità della stessa. Riguardo poi al racconto giornalistico, la cartina di tornasole da considerare è sempre quella dell’essenzialità della notizia: “La disabilità va messa in evidenza quando ciò è essenziale”, ha concluso.
Questione di lessico: a cosa prestare attenzione
Francesca Arcadu, dal canto suo, ha evidenziato come sia difficile da scardinare quella versione stereotipata della disabilità come tragedia che passa sotto il nome di “abilismo”: “Le parole sono pietre, ogni volta che ne usiamo una possiamo fare danni, esse si sedimentano nella vita delle persone e creano cultura. La responsabilità della scrittura è enorme e dobbiamo avere chiaro che ogni volta che scriviamo un articolo c’è chi lo legge e chi può sentirsi ferito dalla rappresentazione che ne facciamo”. Quanto al lessico, è stato segnalato come la locuzione “costretto” sulla carrozzina (o sulla sedia a ruote) sia un tipico caso di abilismo, che evidenzia l’aspetto negativo invece che è il fatto che essa rappresenta un ausilio che permette alla persona il movimento. E se “persona con disabilità” è certamente preferibile a “diversamente abile”, per Arcadu occorre prestare molta attenzione al racconto di tragici fatti di cronaca come l’uccisione da parte di un genitore, poi suicida, del proprio figlio con disabilità: “Viene spesso fuori solo la visione di chi pensa che porre fine alla vita di una persona con disabilità sia un atto d’amore o una liberazione. No, è un omicidio. E in casi simili la voce delle persone con disabilità non viene quasi mai messa in evidenza, non viene esplorato il loro punto di vita. Ci si concentra sul genitore e si toglie alla persona disabile il diritto di esistere e di essere rappresentata. E così facendo si condiziona la percezione e la cultura”.
L’inclusione lavorativa: una sfida che porta all’autonomia
Il tema dell’inclusione, con particolare riguardo all’ambito lavorativo, è stato poi messo in evidenza da Luigi Porrà, segretario nazionale di CoordDown, il coordinamento delle organizzazioni delle persone con sindrome di Down. Se secondo i dati Istat meno di una persona con disabilità su tre ha un lavoro, i numeri sono ancor più ridotti per le persone con una disabilità intellettivo relazionale: “Lavorare è un diritto fondamentale di tutti, persone senza disabilità e persone con disabilità. Per inserire nel mondo del lavoro una persona con disabilità intellettiva è necessario un forte legame fra l’azienda, il tutor e il lavoratore stesso: vanno create le occasioni sul territorio e vanno combattuti i pregiudizi”. “Ogni persona con sindrome di Down – ha detto Porrà – può lavorare, secondo le sue possibilità: l’obiettivo è quello di trovare un ruolo che si adatti all’individuo, in modo da potergli consentire di esprimersi secondo quelle che sono le sue capacità e le sue inclinazioni. Quando questo avviene, le persone possono raggiungere grandissimi risultati ed avere anche un impatto molto positivo sui colleghi di lavoro, sulla soddisfazione dei clienti e sulla cultura della disabilità”. Il lavoro dunque che è essenziale per conquistare un’autonomia, consentendo di avere nuove relazioni sociali.
Il verde, il supermercato, la pizzeria: esperienze dal territorio
Le testimonianze che sono arrivate dal territorio hanno dato l’esempio di come l’azione concreta di inclusione sia possibile e varia nelle sue differenti realizzazioni. Il progetto “Abitare con il verde” sviluppato a Quartucciu ha messo in risalto il ruolo dell’ortoterapia e la possibilità per un gruppo di ragazzi con disabilità intellettive di lavorare nel verde, imparando un mestiere e creando un gruppo di lavoro affiatato. Paola Cannas, che ha illustrato l’iniziativa, ha sottolineato la necessità di un riconoscimento vero e proprio dell’ortoterapia come strumento riabilitativo e inclusivo.
Da Bono la cooperativa “Giovanni Maria Angioy”, attiva dal 2014, ha portato l’esperienza, descritta da Rossella Erittu, di un inserimento educativo e professionale per ragazzi con disabilità del paese, permettendo loro di vivere una nuova avventura alla fine del loro percorso scolastico. Con il progetto “Perché no?”, finanziato dall’amministrazione comunale, si è provato quindi ad ovviare al problema della limitata inclusione sociale che i ragazzi vivevano dopo aver lasciato la scuola. I ragazzi e le ragazze che hanno portato la loro esperienza personale hanno sottolineato come stiano facendo esperienze di responsabilità e lavoro nei supermercati, interagendo non solo con le persone ma anche con il mondo lavorativo.
E’ di Ozieri l’esperienza raccontata da Francesca Sanciu, operatrice della Caritas diocesana e socia della cooperativa Spes che ha avviato inserimenti lavorativi di numerose persone fragili e vulnerabili in diversi settori, dall’agricoltura all’edilizia, fino alla ristorazione con la nascita un anno e mezzo fa di PIZ-STOP, una pizzeria all’interno della quale sono stati assunti alcuni ragazzi con disabilità intellettiva. “Abbiamo costruito un modello di inclusione lavorativa, ora l’obiettivo è di reiterare il modello invitando anche altre aziende del territorio ad osare e ad assumere ragazzi come loro”. E Sara, 20 anni, assunta come cameriera a Piz-Stop, racconta: “Ho frequentato il liceo classico, alla fine ho cercato un lavoro ma senza riuscirci. Nel novembre 2021 sono stata assunta dalla cooperativa Spes per Piz-Stop. Ho accettato la proposta e oggi siamo una grande famiglia: ogni mese con grande gioia ricevo una busta paga e con quei soldi aiuto la mia famiglia e sono anche io più autonoma”.
In chiusura Rita Spanu, pedagogista clinico, con Giuseppina Chirigoni e Silvia Allena che operano all’interno dell’associazione Possibilmente ODV, e con loro Francesco, ragazzo ventenne con la passione per il teatro ben coltivata all’interno dei laboratori dell’associazione, hanno parlato dell’importanza della valorizzazione della persona con disabilità, del rapporto stretto con le famiglie e del cammino per portare giovani e adulti ad un’autonomia che migliori la loro qualità della vita.