Sardegna/6. Incontri e culture
SASSARI – L’arrivo in Italia di persone provenienti da paesi stranieri è stato in passato ed è tuttora percepito come un fenomeno emergenziale, in cui le migrazioni appaiono essenzialmente come un problema e perfino un rischio dal quale guardarsi. L’elemento dell’accoglienza, così come quello del confronto culturale e del vantaggio reciproco rimane sostanzialmente sottotraccia, sovrastato da una lettura che legge l’immigrazione come una questione di ordine pubblico, in ottica securitaria. Dopo decenni nei quali questo approccio, spesso cavalcato in modo superficiale dalla politica, non ha prodotto vantaggi significativi sul versante della coesione sociale, il tempo può oggi essere maturo per promuovere un’ottica più rispettosa dell’estrema complessità del fenomeno e del vissuto delle singole persone. La conoscenza, l’incontro e il reciproco rispetto possono sfociare in una vantaggiosa coesistenza, obiettivo che occorre però perseguire attivamente, cambiando le lenti attraverso le quali il fenomeno migratorio è stato finora osservato, valutato e vissuto. E anche qui sta l’importanza dell’informazione e di come i fatti riguardanti le migrazioni vengono raccontati. Di questo si è parlato a Sassari nel seminario di formazione per giornalisti organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Sardegna, da Caritas Sardegna insieme a Ucsi Sardegna e a Redattore Sociale, a Sassari, ospiti della Caritas turritana.
L’incontro, guidato dal presidente di OdG Sardegna Francesco Birocchi e introdotto da Andrea Pala, presidente Ucsi Sardegna, è stato aperto dal saluto dell’arcivescovo di Sassari, Gian Franco Saba, che ha sottolineato l’esigenza, in tema di migrazioni, di passare alla dimensione dell’incontro: “Oggi siamo chiamati a chiederci come abitare il territorio, cioè quale casa è il territorio per le persone che lo abitano e in che modo esso, per alcune persone, sia invece una ‘non casa’, cioè un luogo di assenza di significato, di relazione e di incontro. In questo ambito la comunicazione può incidere tanto nel narrare storie, vicende e valori che possano aiutare a maturare una cultura dell’incontro proprio a partire dal basso e dalle esperienze quotidiane”.
50 anni di immigrazione vissuti (e raccontati) con la lente dell’emergenza
Dopo un preambolo dedicato alla Carta di Roma, il Protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, del giugno 2008, oggi confluito nel Testo Unico dei doveri del giornalista, che invita i giornalisti italiani ad osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti nel territorio della Repubblica Italiana, il direttore di Redattore Sociale, Stefano Caredda, ha ricordato i punti salienti della storia dell'immigrazione e della normativa sull'immigrazione negli ultimi 50 anni in Italia, sottolineando in modo particolare l'ottica emergenziale con la quale il fenomeno migratorio è stato osservato. Una lente distorta alla quale se ne è sovrapposto col tempo un'altra, quella securitaria per la quale il fenomeno - presentato come un'invasione - rappresenta un pericolo per l'identità italiana.
Il fenomeno delle migrazioni e della mobilità umana – è stato rimarcato - è peraltro ben più vasto e riguarda tutti i paesi, il che evidenzia la necessità di gestire, guidare e programmare il fenomeno, non solo di subirlo. Dal punto di vista comunicativo sono state notate alcune tendenze di fondo, fra tutte la rimozione del tema dell'integrazione e dell’accoglienza dall'agenda politica, e la riduzione dell’ampia e complessa materia dell’immigrazione alla sola questione dell’arrivo via mare dei profughi (gli "sbarchi"), che per quanto drammatica ne rappresenta solo una parte. Le restrizioni sui visti e sui flussi regolari in entrata, come pure il rafforzamento delle strategie di contenimento, espulsione e respingimento sono altri temi all’ordine del giorno, in un contesto in cui le normative cambiano frequentemente per decreto, impedendo la dovuta programmazione.
Il direttore di Redattore Sociale ha infine illustrato la situazione demografica della Sardegna con gli ultimi dati consolidati disponibili: a fronte di 1.575.028 residenti complessivi, la componente straniera è pari al 3,1% con 48.617 residenti a fine 2022. In maggioranza donne, per quasi la metà provenienti dal resto d’Europa (i romeni sono la prima nazionalità) lavorano soprattutto nei servizi (uno su cinque di questi, nel lavoro domestico), nell’edilizia e nell’agricoltura e allevamento. A scuola gli studenti stranieri sono il 2,8% del totale, oltre 5 mila rispetto ai circa 200 mila complessivi, e man mano che passano gli anni sempre di più solo coloro che sono nati sul territorio italiano.
Il Comune di Sassari e il servizio di orientamento per i non comunitari
Esaurita la parte generale, il seminario ha dato spazio a coloro che, sul territorio del sassarese, operano attivamente per il supporto alla popolazione straniera. Ad iniziare da Ali Bouchouata e Ali Kalati, dello Sportello extracomunitari e stranieri del Comune di Sassari, che hanno raccontato il lavoro portato avanti nell’orientamento e nel sostegno a chi giunge sul territorio sassarese: un impegno che ha reso meno proibitivo per tutti l’ottenimento o il rinnovo del permesso di soggiorno e degli altri documenti necessari, e che grazie alla conoscenza del contesto locale e delle necessità presenti sul territorio ha consentito il raggiungimento di una formazione specifica professionale e un inserimento nel mondo del lavoro. Un esempio è il corso per assistenti familiari frequentato soprattutto da donne provenienti dall’est Europa, che hanno potuto usufruire di formazione sulla lingua e sulla cucina italiana, per un miglior inserimento all’interno dei nuclei familiari sassaresi.
Il progetto LGnet, la ricerca delle persone vulnerabili presenti in città
Sassari è presente anche fra le 18 città che in tutta Italia hanno attivato il progetto LGnet, co-finanziato dall’Unione Europea (fondi FAMI, Fondo Asilo Migrazione e Integrazione) in rete con il Ministero dell’Interno, l’Anci e i 18 comuni interessati: l’obiettivo del programma – giunto alla sua seconda edizione - è di migliorare il benessere in quei territori dove è alta la presenza di cittadini di origine straniera che non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di integrazione, attraverso la presa in carico delle situazioni più complesse anche al fine di contrastare il degrado, la marginalizzazione e il conflitto sociale nelle aree urbane interessate. Giovanna Piana ha raccontato l’esperienza sassarese, gestita dalla cooperativa “Porta Aperta”, che si è caratterizzata dalla presenza di una équipe itinerante di strada (formata da una psicologa, un’animatrice, due educatrici professionali, un’assistente sociale e una mediatrice culturale linguistica) che con un furgone riconoscibile si reca nelle aree più indicate della città (il centro storico, le mense della Caritas, l’esterno della questura negli orari di maggior affluenza dell’Ufficio immigrati) in modo da contattare e individuare quelle persone che possano ricevere una prima presa in carico dal punto di vista socio sanitario. Il progetto prevede anche laboratori per professionalità manuali (50 i migranti che li hanno frequentati), interventi per favorire la co-abitazione, azioni di accompagnamento nel reperimento in maniera autonoma di soluzioni abitative, fino alla disponibilità di due mini appartamenti per l’inserimento di persone senza dimora, per un massimo di sei posti letto.
“Accompagniamo le persone più vulnerabili – spiega Piana - nel vivere al meglio la nostra città, garantendo loro una piena e dignitosa integrazione sociale: l’avvicinamento, l’ascolto dei bisogni, l’orientamento verso i servizi presenti, il supporto nel disbrigo delle pratiche amministrative, la costruzione di un progetto personalizzato per il quale chiediamo al singolo l’adesione ad un Patto di Collaborazione e nel quale il soggetto si senta protagonista principale del proprio percorso di vita”. La prima annualità del progetto ha permesso il contatto con 111 persone, nell’edizione 2023 se ne sono aggiunte altre 43, con sei inserimenti negli appartamenti della “Casa di Joseph” e la costruzione di 30 progetti personalizzati.
La tratta delle donne, contrasto alla prostituzione schiavizzata
Del fenomeno della tratta ha parlato Sabrina Mura, avvocata e responsabile dell’associazione Acos, impegnata da tempo nel contrasto alla prostituzione schiavizzata. Un fenomeno che si è evoluto nel corso del tempo ma che era presente in città e sul vicino litorale di Platamona già 30 anni fa, negli anni ’90 del secolo scorso, con la presenza di un consistente numero di giovani donne vittime inconsapevoli, prima condotte in Italia e poi sfruttate da organizzazioni criminali nella prostituzione schiavizzata.
“Donne che avevano subito l’intera gamma della violenza: discriminate da bambine rispetto ai fratelli maschi nelle opportunità di studio, poi costrette a violenza fisica e psicologica, erano vendute ai trafficanti e portate sulle nostre strade per essere vittime anche dei clienti italiani del sesso a pagamento”. All’epoca le prime unità di strada, composte da 3 o 4 persone, si recavano nelle strade per incontrare le ragazze: “Venivamo accolti con riconoscenza e parlavamo con donne tenute nella più totale ignoranza. Non sapevano di poter accedere all’assistenza sanitaria – informazione oggi assai più diffusa – ed esprimevano bisogni semplici”. La consulenza legale, l’individuazione di percorsi di regolarizzazione, la mediazione culturale, il sostegno psicologico sono stati a lungo il cuore dell’impegno verso queste donne, “un impegno che quando si attua in rete fra più soggetti che si occupano di immigrazione diventa più incisivo”. Anche perché “è impossibile lavorare da soli in un settore come questo”. “Poi il fenomeno è cambiato e in maniera definitiva, in seguito alla pandemia da Covid, la prostituzione schiavizzata è sparita dalle strade e si esercita ora nelle case, il che rende ancor più complicato raggiungere queste donne, ancor più assoggettate ai loro sfruttatori”.
Il grave sfruttamento lavorativo: una schiavitù moderna e tutta maschile
Rivolto proprio alle vittime di tratta è il progetto Elen Joy, che offre una serie di servizi di assistenza e integrazione nell’ambito di un’iniziativa del Ministero delle Pari Opportunità per il contrasto al traffico di essere umani. Attivo in ogni regione italiana e coordinato da un’unità centrale costituita dal Numero Verde Antitratta, il progetto è operante in Sardegna dal 2003 con la gestione operativa delle Figlie della Carità di san Vincenzo de’ Paoli. A marzo 2024 ha preso il via una nuova edizione che si protrarrà per 17 mesi. Sostiene le vittime dal momento dell’emersione dalla situazione di pericolo e durante tutte le fasi del percorso di protezione sociale, fino al raggiungimento dell’autonomia.
“Partito con il contrasto allo sfruttamento sessuale e alla prostituzione coatta – ha spiegato la referente Valentina Sanna – il progetto si è espanso agli ambiti dello sfruttamento in ambito lavorativo, dell’accattonaggio, e del contrasto all’economia illegale (trasporto e spaccio di stupefacenti), ai matrimoni combinati o forzati, alla violenza domestica. E fra queste, la vera emergenza oggi è data dal grave sfruttamento lavorativo”. A tal punto che “se fino a sette anni fa incontravamo solo donne, oggi i numeri prevalenti riguardano la violenza maschile in ambito lavorativo. Ogni territorio ha la sua specificità. In Sardegna le aree in cui si concentra il grave sfruttamento lavorativo sono la ristorazione, l’allevamento e la pastorizia, l’agricoltura e l’edilizia. Le persone sfruttate, in maggioranza uomini in età lavorativa, provengono soprattutto da Pakistan, Senegal, Bangladesh e Nigeria”.
E’ importante notare – fa notare Sanna – la differenza fra sfruttamento lavorativo (che implica una situazione di cosiddetto ‘lavoro grigio’ in cui esiste un contratto di lavoro ma ci sono irregolarità) e grave sfruttamento lavorativo, che non solo corrisponde al ‘lavoro nero’ in cui non c’è contratto e non sono riconosciuti riposi, ferie, malattia, ecc., ma può vedere anche l’esercizio di una violenza fisica o psicologica con minacce e sequestro dei documenti, fino alla vera e propria privazione della liberta personale. In pratica una forma di schiavitù moderna.
Servizi come lo sportello d'ascolto, le attività di orientamento e di formazione linguistica, i tirocini aziendali e la formazione professionale specifica per edilizia e ristorazione, si rivolgono a tutti, ma “possiamo proporre i programmi di accoglienza solamente a chi è riconosciuto vittima di grave sfruttamento, il che è operativamente parlando un grande limite”. “Quando proponiamo un programma di accoglienza dobbiamo purtroppo riconoscere che esso è poco competitivo rispetto alla situazione concreta vissuta dalla persona: la necessità ovvia di rispettare tempi e regole fa sì che accada che le persone rinuncino all’avvio di un percorso di regolarizzazione”, percepito paradossalmente come troppo rischioso o vago da chi vive bisogni urgenti e quasi mai ha una consapevolezza dei diritti dei lavoratori.
Nonostante le criticità i numeri che parlano di 483 persone contattate, 328 persone per le quali è stato verificato uno sfruttamento in ambito lavorativo e 7 persone entrate nei programmi di accoglienza perché gravemente sfruttate, indicano la necessità di mantenere vivo e rafforzare un presidio fondamentale per chi è vittime di sfruttamento.
La seconda accoglienza sul territorio: l’esperienza di Alghero
Di seconda accoglienza, e quindi di interventi strutturati per favorire la presenza sul territorio, ha parlato Antonio Cerasolo Bruzzi del SAI (Sistema di accoglienza e integrazione) di Alghero, un servizio gestito dal GUS (Gruppo Umana Solidarietà) che si inserisce nella rete nazionale degli enti locali nell’ambito della programmazione finanziata dal Ministero dell’Interno. Impegnato da oltre sette anni nella seconda accoglienza ad Alghero, servizio che negli anni ha interessato 150 persone fra nuclei familiari, giovani e adulti, Cerasolo Bruzzi mette in evidenza che “si tratta di progetti che danno orientamento legale, sociale e lavorativo grazie ad équipe multidisciplinari e che sono in grado di costruire un importante progetto di vita e favorire l’emancipazione del singolo, dimostrando che quando i servizi funzionano, le persone vengono incluse bene”. La criticità esistente è che questo sistema “è disciplinato da decreti emanati a singhiozzo, gli ultimi a distanza di tre mesi, che non permettono una reale programmazione lasciando nell’incertezza il nostro lavoro e le speranze di vita di molte persone”. In Sardegna i progetti SAI sono 14: “pochi”, dice Cerasolo Bruzzi, che auspica un loro rafforzamento.
Caritas: fare rete, poveri e migranti sono parte attiva del cambiamento
L’incontro è stato chiuso dal direttore della Caritas diocesana di Sassari, Antonello Spanu: “La questione di fondo – ha detto - è la pace del pianeta e l’istanza di giustizia che arriva da ogni territorio, è il fatto che tutti abbiamo diritto ad una casa, nella consapevolezza che siamo davanti a cambiamenti epocali: ecco perché nel nostro operare dobbiamo chiederci quale ‘casa’ o quale ‘non casa’ è il nostro territorio. E’ vero che la Caritas sta in frontiera e in periferia, è la porta d’accesso per chi non ha diritti, e con i centri d’ascolto, la mensa, il centro diurno, il dormitorio, i Centri di accoglienza CAS, opera concretamente a favore dei poveri, ma è ugualmente vero che l’istanza prevalente deve essere pedagogica e il territorio deve diventare un luogo dove la vita di tutti si esprime e dove tutti possono sentirsi a casa. L’appello è ad andare oltre, a fare rete, a riconoscere che l'altro è parte attiva nel processo di cambiamento che viviamo”.